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La Corte di Cassazione, con Sentenza del 30 maggio 2019, n. 14778, ha statuito che il socio non ha diritto a vedersi direttamente riconosciuto il danno sofferto dalla società per i reati di falso in bilancio e frode fiscale commessi dagli amministratori. Nel caso di specie, nell’ambito di un procedimento penale, erano stati accusati di frode fiscale e falso in bilancio gli amministratori della società; il socio aveva dapprima tentato la costituzione di parte civile nel processo penale, intraprendendo successivamente il giudizio ordinario e chiedendo il risarcimento del danno diretto. La Suprema Corte, respingendo le istanze del socio, ha sottolineato che «il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’art. 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 della legge fall. (Cass. 8458/2014; Cass. 2157/2016)».