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La Corte di Cassazione, con Sentenza del 20 marzo 2019 n. 14503, depositata il 28 maggio 2019, richiamando quanto disposto dall’art. 2119, comma 2, c.c., ovvero il principio secondo cui «Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore», ha affermato che il fallimento del datore di lavoro non determina la cessazione dei rapporti di lavoro tra i dipendenti e il fallito, non configurandosi la dichiarazione di insolvenza come giusta causa né come impossibilità sopravvenuta. La dichiarazione di fallimento – espone la Suprema Corte – può esclusivamente costituire giustificato motivo di recesso, da esercitarsi da parte del curatore nell’esercizio dei propri poteri di gestione. In altre parole, nel caso in cui non sia stato disposto l’esercizio provvisorio dell’impresa, il rapporto di lavoro viene sospeso sino a quando il curatore non decida di proseguirlo o di scioglierlo, pur – in ogni caso – con le limitazioni non derogabili che si rinvengono nella normativa dei licenziamenti individuali e collettivi. Pertanto, l’eventuale licenziamento illegittimo intimato dal curatore fa sì che il lavoratore possa insinuarsi al passivo anche per il risarcimento dei danni, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra.