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La Corte di Cassazione, con Sentenza del 19 giugno 2020, n. 12016, ha affermato che, nella definizione della natura dell’apporto dei soci, il giudice deve ricostruire la volontà delle parti esplicitata nel verbale dell’assemblea, facendo applicazione dei criteri di interpretazione, letterale e logico-sistematico dettati dal codice civile in tema di contratti e applicabili per la ricerca della reale intenzione dei soggetti (socio e società) di una delibera assembleare. Nel caso di specie, il verbale dell’assemblea dei soci di una società a responsabilità limitata prevedeva che «i soci deliberano di finanziare la società mediante un apporto personale infruttifero proporzionato alla quota posseduta da ciascun socio secondo le esigenze della società». Per l’Agenzia delle Entrate tale atto doveva essere considerato come un finanziamento soci (con imposta di registro del 3% sulla somma versata), mentre per la società il verbale era la formalizzazione dell’impegno dei soci a un successivo apporto di capitale di rischio. La Suprema Corte, condividendo le ragioni del contribuente, ha rilevato che qualificare l’atto come “finanziamento soci” per il solo fatto che a distanza di tempo dal versamento non è stato deliberato alcun aumento di capitale non è condivisibile, infatti occorre ricostruire la natura del rapporto secondo l’effettiva volontà delle parti. Possono escludere la qualificazione dell’apporto dei soci a titolo di mutuo «l’espressa esclusione di interessi e la mancata previsione di un termine per il rimborso dell’erogazione», in quanto trattasi di elementi che «a fronte della normale fruttuosità (art. 1815 c.c.) e dell’altrettanto normale previsione della durata del mutuo, non inducono a qualificare il finanziamento in termini di mutuo».