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La Corte di Cassazione, con Sentenza del 14 giugno 2018, n. 28904, depositata il 5 novembre 2018, ha confermato che, per il riconoscimento di un credito e la sua ammissione al passivo, l’onere della prova di cui all’art. 1988 c.c. non può ricadere sul curatore fallimentare. Nella fattispecie, i giudici della Suprema Corte – rigettando il ricorso promosso da una società – hanno affermato che la dichiarazione rilasciata dal soggetto poi fallito non può assumere l’efficacia della confessione stragiudiziale, ai sensi dell’art. 2735 c.c., poiché il curatore «rappresenta la massa dei creditori e non il fallito» (così Cass., 8 ottobre 2014, n. 21258; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24690). In ogni caso, per poter produrre l’effetto dell’inversione di cui all’art. 1988 c.c., il riconoscimento di un debito «deve pur sempre provenire da un soggetto legittimato sotto il profilo sostanziale a disporre del patrimonio sul quale incide l’obbligazione dichiarata, trattandosi di atto avente carattere negoziale» (Cass., 13 ottobre 2006, n. 20689). La Corte di Cassazione non esclude a priori, nel caso in cui la dichiarazione di riconoscimento di un debito provenga da un terzo (in genere), la possibilità di valutare la stessa nel “concorso con gli altri elementi istruttori”, esaminando le fattispecie concrete di volta in volta prese in esame.