Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La disciplina giuslavoristica posta a tutela dell'ambiente di lavoro (di Fiorella Lunardon)


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SOMMARIO:

1. L’art. 2087 c.c. - 2. L’art. 9 dello Statuto dei lavoratori - 3. I d.lgs. n. 626/1994 e n. 81/2008 - NOTE


1. L’art. 2087 c.c.

Il sistema lavoristico di protezione della salute e sicurezza del prestatore di lavoro è costruito su di una norma che preesiste alla Costituzione. L’art. 2087 c.c. configura in capo al datore di lavoro l’obbligo “di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di prestatori di lavoro”. La disposizione ha rivelato di possedere grandi potenzialità che, inespresse almeno fino agli anni ottanta, hanno avuto svolgimento in tutto il prosieguo dell’evoluzione normativa, caratterizzata come noto dalle grandi svolte del 1994 (d.lgs. n. 626) e del 2008 (d.lgs. n. 81). Tale disposizione è connotata in senso teleologico giacché modella il proprio precetto (l’obbligo/dovere datoriale) in base al fine perseguito (la tutela dell’integrità fisio-psichica del lavoratore). Nessuna indicazione viene invece data degli strumenti da utilizzare, abbracciando la norma ogni tipo di misura utile a realizzare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da qualsivoglia rischio [1]. Le sue potenzialità hanno poi trovato il modo di esprimersi al meglio grazie al loro abbinamento con i principi della Costituzione ed in particolare con gli articoli 32 (diritto alla salute), 35 (tutela del pubblico al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni) e 41 (l’iniziativa economica privata non si può svolgere in contrasto con la dignità e sicurezza dell’uomo). Questi principi hanno agito come detonatori del c.d. “dovere di sicurezza” tanto è che la giurisprudenza vi ha costruito, sulla base di un celeberrimo “combinato disposto” (art. 32 Cost., 2087 e 2043 c.c.), la nozione di danno biologico [2]. È insomma l’art. 2087 c.c. a dare il colore al nostro sistema lavoristico della sicurezza, dovendosi ritenere che tutta la legislazione successiva non sia che una sua mera esplicitazione, necessaria per rendere attuabile l’obiettivo perseguito attraverso una normativa strumentale, più tecnica che giuridica in senso stretto. Dall’art. 2087 è stato tratto il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile (“secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la [continua ..]


2. L’art. 9 dello Statuto dei lavoratori

Con l’art. 9 St. lav. il legislatore tenta di colmare le lacune applicative del­l’art 2087 c.c., in particolare quelle relative alla sua dimensione “prevenzionistica”. La disposizione statutaria attribuisce infatti ai lavoratori il diritto di controllare, mediante loro rappresentanze, l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali nonché di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute. Ma nel 1970 le norme per la prevenzione degli infortuni quali erano? Non esisteva ancora una normativa generale. Allora v’erano frammenti di normativa comunitaria e le discipline di settore o regolamentari che tuttavia risentivano di una forte irrazionalità di sistemazione. Senza strumenti e procedure la prevenzione resta difficile. Essa in fondo è tributaria della tecnica assai più che della scienza giuridica.


3. I d.lgs. n. 626/1994 e n. 81/2008

La svolta è avvenuta nel 1994 con l’elaborazione del d.lgs. n. 626 che ha incardinato l’intero sistema sul principio della prevenzione. Nel 2008 il decreto legislativo, con tutte le sue successive modifiche e integrazioni, è confluito nell’attuale Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro (d.lgs. n. 81) [7]. La prevenzione è perseguita e realizzata in tre modi. Anzitutto, queste normative offrono definizioni amplissime di ambiente di lavoro, di lavoratore, di datore di lavoro; trattasi di definizioni quasi … in bianco, che vanno ben oltre le definizioni civilistiche e lavoristiche cui siamo abituati. L’ambiente di lavoro è definito come “qualsiasi posto in cui il lavoratore acceda anche solo occasionalmente per svolgervi le mansioni affidategli” (Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2011, n. 19553). Si pensi (a prescindere dal distacco) al lavoratore che per eseguire un ordine si reca presso altra impresa ove incorre in un infortunio. L’individuazione del responsabile (previa dimostrazione dell’inadempimento, alle condizionisupra esposte) seguirà il filo rosso del potere direttivo consentendo di risalire fino a chi ha ordinato al lavoratore di effettuare la prestazione in un luogo diverso dall’impresa di appartenenza. Come a dire che l’ambiente di lavoro coincide con il raggio di esercizio del potere direttivo. Si danno poi due nozioni concorrenti di datore di lavoro. Alla stregua della prima (c.d. formale), è datore di lavoro il soggetto titolare del rapporto. In omaggio al principio di effettività, l’art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 81 offre una seconda nozione (c.d. effettiva o funzionale), per cui è datore di lavoro il soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione, siccome dotato dei poteri decisionali e di spesa. Tali poteri sono frequentemente lo spartiacque per il riconoscimento della responsabilità e non a caso l’espressione “poteri decisionali e di spesa” ricorre in più disposizioni all’interno del decreto legislativo. Nel pubblico impiego il discorso è diverso perché in tale ambito la pubblica amministrazione esercita il potere direttivo attraverso i dirigenti, quindi i poteri di gestione spettano in primis al dirigente; tuttavia la gestione può anche essere affidata ad un funzionario non avente qualifica [continua ..]


NOTE