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1. Premessa - 2. La natura delle società a partecipazione pubblica - 3. Le c.d. 'società in house' - 4. Il fallimento delle società a partecipazione pubblica - 5. Segue. Il fallimento delle c.d. 'società in house' - 6. La posizione della Corte dei Conti - 7. La c.d. 'riforma Madia' - 8. Conclusioni - Bibliografia
Il tema dell’insolvenza delle società in mano pubblica, e in particolare delle società partecipate dagli enti locali, ha affaticato per anni giurisprudenza e dottrina. Esso muove dalla circostanza che l’inquadramento giuridico delle società partecipate rappresenta, ancora oggi, uno problema di non facile soluzione, tenuto anche conto della presenza di una miriade di moduli societari che perseguono il fine pubblico del soddisfacimento dell’interesse generale della collettività. Si tratta – infatti – di soggetti ibridi, a metà strada tra il diritto pubblico ed il diritto privato. Di conseguenza, appare difficile collocarli – alternativamente – tra gli enti pubblici o tra le società private; con evidenti difficoltà in ordine alla corretta identificazione della natura giuridica degli atti posti in essere e, conseguentemente, dubbi in tema di riparto di giurisdizione. Per un corretto inquadramento giuridico, occorre – al proposito – rammentare che il Codice Civile dedica – ora – alle società con partecipazione dello Stato e degli enti pubblici un unico articolo (l’art. 2449), collocato nella sezione XIII, Libro V, Titolo V, Capo V; infatti, l’art. 2450 è stato abrogato dall’art. 3, comma 1, d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito nella legge 6 aprile 2007, n. 46. In particolare, l’art. 2449 si limita a fornire indicazioni peculiari circa amministratori, sindaci e componenti il consiglio di sorveglianza. In termini più generali, la Relazione al codice civile del 1942 stabiliva: «In questi casi è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente». Alla luce di tale dichiarazione di principio, si dovrebbe – quindi – ritenere che lo schema societario adottato imponga l’applicazione di tutte le disposizioni civilistiche di riferimento. E tale assunto sembrerebbe avvalorato dall’art. 4, comma 13, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, per effetto del quale «Le [continua ..]
Le società a capitale pubblico costituiscono soggetti formalmente privati disciplinati da norme che, in alcuni casi, derogano in chiave pubblicistica alla disciplina di diritto civile. Si distinguono, pertanto, dagli enti pubblici economici, caratterizzati dal fatto di essere soggetti formalmente pubblici che operano in regime di diritto privato. La scelta della forma societaria come modalità di organizzazione pubblica comporta la necessità di conciliare la struttura tipica delle società, imperniata sul fine di lucro, con l’interesse pubblico che si intende realizzare (F. NICOTRA). L’esistenza degli enti pubblici a struttura societaria ha portato la giurisprudenza ad affermare la neutralità del modello societario rispetto alle finalità che si intendono perseguire. Tuttavia, autorevole dottrina rileva che, a parte i casi di società c.d. “legali” (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale), «ci troviamo spesso di fronte a società di diritto, comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono» (F. FIMMANÒ). Questa interpretazione risulta avvalorata dalla tendenza dell’ordinamento comunitario ad essere indifferente al profilo nominalistico, rilevando invece – ai fini della classificazione della natura pubblica o privata degli enti – la sostanza delle funzioni esercitate e la tipologia degli interessi perseguiti; ciò anche sul riflesso dell’influenza dell’ordinamento comunitario, che, non tollera ingiustificati privilegi in capo alla prima a scapito dei principi della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali (artt. 49 e 63 TFUE), strumentali alla tutela del principio di concorrenza (F. NICOTRA). In proposito, il dibattito tradizionale sviluppatosi evidenzia una contrapposizione tra una visione c.d. “privatistica” e una visione c.d. “pubblicistica”. Secondo la prima visione, le società a partecipazione pubblica sarebbero soggette al medesimo regime di disciplina delle società di capitali a partecipazione privata, sul presupposto che alle stesse si applica [continua ..]
Le società in house sono aziende pubbliche costituite in forma societaria, tipicamente società per azioni, il cui capitale è detenuto in toto – direttamente o indirettamente – da un ente pubblico che affida loro attività strumentali o di produzione. La costituzione di una società in house rappresenta una delle modalità con cui un ente può organizzarsi per erogare i servizi di gestione interna (informatica, pulizie, ecc.) o i servizi ai cittadini o alle imprese (trasporti, energia, igiene, ecc.). La Corte di Giustizia – con la sentenza Teckal – ha individuato per la prima volta, in maniera chiara, i tratti qualificanti dell’in house providing, rinvenendoli nell’assenza di un rapporto contrattuale tra l’amministrazione aggiudicatrice e la persona giuridica destinataria dell’affidamento, in quanto l’ente conferente esercita sul prestatore del servizio un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e tale persona (giuridica) realizza la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano. La Corte di Cassazione (Cass., sez. un., 5 novembre 2013, n. 26283) ha, più precisamente, affermato che le società in house si caratterizzano pertanto per la contemporanea presenza di tre requisiti: • la natura esclusivamente pubblica dei soci; • l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; • la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. Quindi, si può parlare di società in house quando ci si trovi in presenza di una società caratterizzata da totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza dell’assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale. Sulla base di queste premesse, la Corte di Cassazione afferma che la società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione enuncia, non pare in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, che ne dispone come di una propria articolazione interna; in altri termini si tratterebbe di una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento [continua ..]
Come già si è detto, in giurisprudenza e in dottrina si è registrato nel corso del tempo un orientamento discordante. In particolare, si sono contrapposte due impostazioni metodologiche, quella “tipologica” e quella “funzionale”, le quali hanno dato luogo, in entrambi i casi, sia a soluzioni favorevoli all’applicabilità della disciplina fallimentare alle spa pubbliche, sia a soluzioni contrarie (S. DEL GATTO). In base all’impostazione c.d. tipologica, la scelta sulla disciplina applicabile va fatta sulla base del “tipo” al quale la società partecipata appartiene. Pertanto, coloro che ritengono che buona parte delle società partecipate siano in verità enti pubblici, non ammettono il fallimento delle società partecipate in base ad un’interpretazione estensiva dell’art. 1 della l. fall. (G. ROSSI); quelli, invece, che ritengono che una società abbia sempre natura privatistica a prescindere dalla partecipazione pubblica e dai collegamenti, più o meno intensi, che vi possano essere con l’ente pubblico (in termini di risorse, controlli, attività, ecc.), affermano, al contrario, la sottoposizione di queste società alle procedure concorsuali senza eccezione alcuna (F. FIMMANÒ). La scienza giuridica che segue l’approccio “funzionale”, invece, basa la scelta se una determinata disciplina possa essere applicata alle società per azioni partecipate, non sulla natura – pubblica o privata – della società, ma sull’interesse che con tale disciplina si vuole tutelare (G. NAPOLITANO). Per stabilire, dunque, se la legge fallimentare trovi o no, applicazione nei casi delle spa partecipate da soggetti pubblici, è necessario chiedersi se le ragioni sottese all’esenzione prevista dall’art. 1, l. fall. per gli enti pubblici economici, sussistano anche per le spa partecipate (o, quantomeno, per alcune tra le spa partecipate) (F. GALGANO). In caso di risposta affermativa si dovrà escludere il loro assoggettamento alle norme fallimentari (G. D’ATTORRE). Al proposito, deve ancora essere osservato che esonerare dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali le società a capitale pubblico insolventi – al di là di eventuali ipotesi espressamente previste dal legislatore o in virtù della specifica [continua ..]
5.1. Premessa Sulla possibilità per la società in house di accedere al concordato preventivo, all’accordo di ristrutturazione dei debiti e di essere assoggettata a fallimento, la giurisprudenza non è univoca. Esistono due orientamenti opposti, che fanno entrambi riferimento alle posizioni (anch’esse discordanti) assunte nel tempo dalla Cassazione. 5.2. La posizione contro la fallibilità L’esercizio di servizi ritenuti essenziali per la collettività ha portato parte delle giurisprudenza a estendere alle società in housel’esenzione dalla dichiarazione di fallimento che l’art. 1 delle legge fallimentare riserva (invero) ai soli enti pubblici territoriali (v. art. 1. l. fall.). In particolare, si esclude l’autonoma fallibilità, considerando le società in house come “propaggini inanimate” dell’ente territoriale, i cui amministratori rappresentano meri “esecutori” delle direttive del socio pubblico (F. NICOTRA). Come già si è detto, il primo provvedimento edito è quello del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009), che ha affermato la non assoggettabilità a fallimento delle società in mano pubblica (nella specie si trattava di una spa a totale partecipazione pubblica, titolare del servizio di raccolta differenziata in ambito provinciale). Al proposito, lo stesso Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha – a più riprese (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 22 luglio 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 24 maggio 2011) – individuato gli elementi qualificanti le società in house, affermando quanto segue: • «Posto che la mera titolarità in capo ad un soggetto pubblico delle partecipazioni ad una società per azioni non consente di concludere tout court per la natura pubblica della partecipata, al fine di stabilire la assoggettabilità o meno a procedura concorsuale della medesima, si dovrà in concreto e caso per caso valutarne la gestione e l’attività svolta. Si potrà, pertanto, ritenere sussistente la natura pubblica qualora i) la società affidataria di un determinato servizio svolga la maggior parte della propria attività a favore dell’ente pubblico; ii) l’impresa non abbia acquisito una [continua ..]
La questione dell’insolvenza delle società a partecipazione pubblica, e soprattutto delle conseguenze che dalla stessa potrebbero derivare, è stata affrontata anche dalla Corte dei Conti (Corte dei Conti, sezione di controllo per il Piemonte, deliberazione 18 febbraio 2016, n. 14/2016/PAR). Nel caso sottoposto all’esame della Corte di Conti, il Comune partecipava in via totalitaria ad una società costituita per realizzare operazioni di cartolarizzazione di immobili comunali ad essa conferiti dall’ente locale. A suo tempo, il comune socio aveva prestato una garanzia reale mediante pegno su quote della società medesima nei confronti degli istituti finanziatori e della società interamente partecipata. La società è stata posta in stato liquidazione e il patrimonio sociale, anche a seguito della necessaria e prudenziale svalutazione degli immobili di proprietà, non è in grado di garantire la chiusura della fase di liquidazione in pareggio, attesa la registrazione da parte del liquidatore di un considerevole deficit nel corso della relativa procedura. Per evitare il fallimento, il liquidatore ha quindi proposto all’ente locale un piano di liquidazione che suddivide il suddetto deficit in 10 anni, con l’onere per l’ente stesso, in qualità di socio unico, di farsi carico delle occorrenti risorse finanziarie (A. SANTUARI). In considerazione delle garanzie prestate alla società, il Comune si è – dunque – posto il problema di come affrontare l’impatto in bilancio nel caso di fallimento della partecipata, e ha interpellato la Sezione per sapere se l’ente possa legittimamente procedere alla copertura del deficit, nei termini proposti dal liquidatore. Sul punto, i giudici contabili piemontesi hanno precisato quanto segue: • nel caso di escussione della garanzia reale prestata dall’ente, la responsabilità patrimoniale non può che essere limitata al bene prestato in garanzia; • da ciò consegue che in tale ipotesi l’impatto sul bilancio del Comune è riconducibile alla diminuzione patrimoniale consistente nell’espropriazione forzata della partecipazione societaria (il cui valore, peraltro, è già stato oggetto di svalutazione); • il potere d’intervento del socio pubblico deve rispettare l’art. 6, comma 19, d.l. 31 maggio [continua ..]
Il tema della fallibilità delle società in mano pubblica è affrontato di petto dalla cd. “Riforma Madia” (legge 7 agosto 2015, n. 124). In particolare, l’art. 14 della bozza di decreto delegato relativo alle società a partecipazione pubblica prevede che: • le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e a quelle sul concordato preventivo. Nei 5 anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società in controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le Amministrazioni pubbliche controllanti non potranno costituire nuove società, né acquisire partecipazioni in società già costituite o mantenere partecipazioni in società qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita; • le società a controllo pubblico dovranno adottare con deliberazione assembleare, su proposta dell’organo amministrativo, specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, al fine di prevenirne la formazione. Qualora da tale valutazione emergano uno o più indicatori di crisi, l’organo amministrativo dovrà adottare senza indugio un idoneo programma di risanamento, contenente i provvedimenti necessari per evitare l’aggravamento della crisi, per correggere gli effetti negativi e per eliminarne le cause. È importante richiamare l’attenzione sulle responsabilità dell’organo amministrativo: in caso di fallimento o concordato preventivo la mancata adozione di provvedimenti da parte di tale organo costituisce “grave irregolarità” ai sensi dell’art. 2409 del Codice Civile (denunzia al tribunale), con tutte le conseguenze negative che da ciò possono derivare. Un semplice piano di ripiano delle perdite da parte delle Amministrazioni pubbliche socie non può essere considerato un provvedimento adeguato, a meno che non sia accompagnato da un piano di “ristrutturazione aziendale”, dal quale risulti che sussistono concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte dalla società.
L’analisi svolta evidenzia come la questione dell’insolvenza delle società a partecipazione pubblica possa (rectius potesse) essere esaminata secondo due diversi metodi di indagine, delineati da dottrina e giurisprudenza (F. NICOTRA). Secondo un primo metodo c.d. “tipologico”, il quesito dell’assoggettabilità o meno a fallimento della società a capitale pubblico dovrebbe essere affrontato cercando di individuare la natura giuridica di quest’ultima, nel senso di stabilire se essa sia qualificabile in termini di soggetto privato (fallibile) o di ente pubblico (esclusa dal fallimento). Tale orientamento, tuttavia, non sempre conduce a risultati univoci. In proposito, mentre un’interpretazione tradizionale ribadisce sempre e comunque la natura privata della società in mano pubblica stabilendone l’assoggettamento alla disciplina fallimentare, contrapposti orientamenti giurisprudenziali ritengono che, in presenza di specifici indici sintomatici, una società a partecipazione pubblica possa essere qualificata come soggetto sostanzialmente pubblico (con conseguente esenzione dal fallimento). Secondo un altro orientamento, basato su un metodo c.d. “funzionale”, il problema non è tanto quello di qualificare la società in mano pubblica come ente privato o pubblico, quanto piuttosto quello di stabilire se nella specifica materia di riferimento debba trovare applicazione la disciplina privatistica o quella pubblicistica. L’applicazione di questo metodo conduce ad affermare l’esenzione dal fallimento delle società in mano pubblica che presentino il carattere della necessità. Negli stessi termini si pone la questione se – da parte delle società a partecipazione pubblica – sia possibile ricorrere alle altre procedure concorsuali previste dal nostro ordinamento e, innanzitutto, al concordato preventivo. Aderendo alla tesi per cui è attività commerciale ogni attività diversa da quella agricola e per cui, ai fini dell’assunzione della qualifica d’imprenditore, non è necessario che l’attività esercitata sia la prevalente o l’esclusiva, ne potrebbe conseguire che anche l’attività della società in house (sebbene indirizzata a favore dell’Ente o Enti partecipanti), se svolta secondo criteri di economicità e [continua ..]