Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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Opzioni put a prezzo predefinito, partecipazioni a scopo di finanziamento e divieto del patto leonino (di Antonio Petruzzi, Cultore di Diritto Commerciale presso l’Università di Torino)


La recente giurisprudenza offre l’occasione per occuparsi delle opzioni put, a prezzo preconcordato, di partecipazioni acquistate dal socio a scopo di finanziamento, la cui validità dev’essere, inevitabilmente, vagliata alla luce del divieto del patto leonino. Muovendo dal loro concreto atteggiarsi, il presente contributo cerca di individuarne lo scopo pratico (rectius, la “causa in concreto”) per evidenziarne l’inconciliabilità con la causa stessa del contratto di società.

Put options at a set price, shareholder loans and prohibition of the Leonine clause

Recent case law has provided a framework to deal with put options at a strike price of shareholdings purchased by shareholders for loan purposes, as their validity is being inevitably examined in light of the prohibition of the Leonine clause. Considering their actual orientation, this work aims at identifying their practical purpose (that is, their goal), in order to highlight their conflict with the very cause of the company agreement.

SOMMARIO:

Introduzione - 1. La giurisprudenza di merito e di legittimità - 2. La dottrina - 3. Riflessioni conclusive - NOTE


Introduzione

Le recenti pronunce della giurisprudenza hanno offerto l’occasione per tornare su di una vexata quaestio: la validità delle opzioni put a prezzo predefinito rispetto al divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., norma “transtipica” riferibile ad ogni tipo sociale [1]. Può dirsi “leonino” quell’accordo che “non solo contrasta con il generale interesse ad una corretta amministrazione della società, ma che risulta incompatibile con la causa stessa del contratto sociale” [2]. In particolare, vengono in mente quelle opzioni di vendita, a prezzo prestabilito, delle partecipazioni acquistate dal socio a scopo di finanziamento, la cui legittimità è largamente discussa sia in dottrina che in giurisprudenza [3]: nelle operazioni di finanziamento sotto forma di investimento in capitale azionario, la fissazione del prezzo dell’opzione put in misura eguale al capitale investito dal socio finanziatore, oltre agli interessi, gli consentirebbe di cedere in seguito la propria partecipazione recuperando quanto investito più gli interessi, a prescindere dall’andamento dell’impresa [4]. Il presente contributo si propone di individuare il punto di approdo della giurisprudenza, di merito e di legittimità, nonché della dottrina circa la liceità delle opzioni di tal fatta, cercando di fare chiarezza su questa questione per certi versi ancora controversa.


1. La giurisprudenza di merito e di legittimità

La giurisprudenza di merito [5] ha più volte osservato come un assetto negoziale di tal guisa, potendo determinare in concreto un’esclusione assoluta e costante del finanziatore dal rischio di perdita, né rispondendo nel complesso ad un interesse autonomamente meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., eluda vistosamente il divieto del patto leonino. Anche la Corte di Cassazione [6] ebbe a precisare come l’alea tipica d’im­presa costituisca invero un connotato ineliminabile di qualsivoglia contratto di società, e laddove venga pattuito un qualche diritto di exit del socio a condizioni preconcordate, la fuoriuscita di quest’ultimo dalla compagine sociale non potrebbe che avvenire con la (sola) liquidazione della quota ai sensi del­l’art. 2437-ter c.c., esclusa anche la restituzione del sovrapprezzo eventualmente versato al momento dell’acquisto della partecipazione. Il sovrapprezzo, la cui causa è assimilabile a quella del “capitale di rischio” e non a quella del mutuo, a differenza dei finanziamenti, non potrebbe infatti generare alcun corrispondente credito restitutorio del socio nei confronti della società conferitaria (sostanzialmente titolare di una call option), salva comunque la distribuzione della relativa riserva, ai sensi e nei limiti dell’art. 2431 c.c., a tutti i soci in proporzione a quanto da ognuno versato [7]. Sul tema, per lungo tempo, ha “fatto scuola” il precedente di legittimità n. 8927 del 29 ottobre 1994 [8], ove si legge che “il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c.” sussiste allorquando “l’esclusione dalla perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante”. Peraltro, in quell’occasione, la Suprema Corte ebbe modo di precisare come possa dirsi al contrario valida una disciplina della partecipazione agli utili e alle perdite, che pur rechi una clausola di esclusione, dedotta in un “contratto parasociale avente funzione causale autonomamente meritevole di tutela e non volta unicamente alla violazione del disposto dell’art. 2265 c.c., ma espressione di un interesse alla buona gestione dell’impresa” [9]. In argomento, in uno dei suoi ultimi arresti [10], tuttavia, la Corte rileva come tale principio, relativo alla necessità che [continua ..]


2. La dottrina

L’orientamento che sembra prevalere fra gli interpreti è nel senso della nullità tout court di simili pattuizioni: la partecipazione agli utili e alle perdite, nei limiti della propria quota, costituisce un connotato ineliminabile di qualsivoglia contratto di società [14]. Allora, le opzioni di acquisto e vendita, a prezzo predefinito, delle partecipazioni acquistate nel quadro di contratti di “finanziamento partecipativo” si configurerebbero quali patti di riacquisto, stipulati nell’ambito di complesse operazioni di finanziamento, in spregio al divieto di cui all’art. 2265 c.c. – secondo una logica prevaricatoria –, dunque in frode alla legge ex art. 1344 c.c. [15]. Al contrario, secondo i più, opzioni di tal guisa sarebbero legittime allorché predisposte in accordi per la cessione scaglionata del controllo societario (specie delle S.p.a. medio-piccole, connotate da una stretta correlazione fra la proprietà e il management), collocandosi, per l’appunto, sul piano della circolazione delle partecipazioni e non su quello della distribuzione degli utili e delle perdite. Queste pattuizioni, infatti, si presenterebbero come semplici impegni di acquisto, inseriti nel quadro di normali contratti di cessione di titoli, finalizzati a cadenzare nel tempo l’acquisizione di un determinato pacchetto di controllo [16].


3. Riflessioni conclusive

Ad avviso chi scrive, è d’uopo concentrarsi preliminarmente sulla qualitas socii, e più in particolare sulla qualità, per così dire “mista”, del socio-finanziatore. In argomento, è forse utile muovere da una semplificazione concettuale: il socio partecipa del rischio d’impresa nel momento stesso in cui sottoscrive una quota, più o meno consistente, di capitale, che è, e resta sempre, “capitale di rischio”; l’obbligazionista è creditore della società ed eroga capitale non “di rischio” bensì “di prestito”, onde non partecipa del rischio d’impresa in quanto evidentemente non è socio. Detto ciò, si pensi al prestito obbligazionario convertibile: nasce con causa di mutuo ma, alla scadenza del prestito, muta il titolo dell’obbligazionista, che da creditore, per effetto della conversione – quest’ultima a valere anche quale sottoscrizione del deliberato aumento a servizio del prestito – diventa socio. Ha luogo, si potrebbe sostenere, una novazione, e precisamente una novazione causale del titolo: da titolo di credito, l’obbligazione, a titolo di “capitale di rischio”, la partecipazione [17]. Ora, questo schema, a ben vedere, si ripete anche in altre occasioni: si pensi alle azioni di godimento che vengono attribuite al socio in seguito alla riduzione reale del capitale “con sorteggio”. Al socio, le cui azioni (ordinarie) siano, in tutto o in parte, sorteggiate viene restituito, tutta o parte, del conferimento, quindi, difatti, parte del capitale gli viene rimborsata in anticipo. Si tratta, è bene evidenziarlo, della restituzione del solo capitale, non delle altre poste (attive) del patrimonio netto. Ecco, allora, che in virtù delle azioni di godimento il socio “sorteggiato” potrà continuare a partecipare delle altre poste del patrimonio netto (non capitalizzato), compresa anche la riserva da sovrapprezzo azioni, e quindi comunque condividere il rischio d’impresa [18]. La figura del socio-finanziatore potrebbe apparire un ibrido, ma, fatte queste premesse, è agevole comprendere perché invero non lo sia. Nelle operazioni di finanziamento sotto forma di capitale di rischio, il socio-finanziatore è, a tutti gli effetti, un socio che, al pari degli altri, partecipa agli utili e [continua ..]


NOTE