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1. Premessa - 2. Gli atti a titolo gratuito ex art. 64 l. fall. - 3. I pagamenti ex art. 65 l. fall. - 4. La revocatoria ordinaria ex art. 66 l. fall. - 5. La revocatoria fallimentare - 6. Segue: Il presupposto oggettivo - 7. Segue: Il presupposto soggettivo - 8. Segue: La prova contraria - 9. Segue: Il c.d. periodo sospetto - 10. Segue: I singoli casi revocatoria fallimentare - 11. Segue: I patrimoni destinati ad uno specifico affare - 12. Segue: Le esenzioni da revocatoria - 13. Segue: Il pagamento di cambiale scaduta ex art. 68 l. fall. - 14. Segue: Gli atti compiuti tra i coniugi ex art. 69 l. fall. - 15. Segue: La prescrizione e la decadenza ex art. 69-bis l. fall. - 16. Segue: Gli effetti dell'azione revocatoria fallimentare - 17. Segue: I diritti del terzo revocato ex art. 70 l. fall. - 18. Segue: La prosecuzione dell'azione revocatoria da parte dell'assuntore del concordato fallimentare - Note
L’introduzione, in sede di conversione (con modifiche) del d.l. n. 83 del 27 giugno 2015 mediante la legge n. 132 del 6 agosto 2015, della previsione di acquisizione automatica alla massa fallimentare con la trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento dei beni oggetto degli atti a titolo gratuito ai sensi dell’art. 64, comma 1, l. fall., offre lo spunto per svolgere una ricognizione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di revocatoria, ferma la considerazione che il dimezzamento dei termini del c.d. periodo sospetto ha comportato il depotenziamento di ogni relativo strumento revocatorio, che, come noto, trova sempre meno applicazione nella prassi fallimentare. Passiamo quindi all’analisi della disciplina contenuta nella Sezione III della legge fallimentare, partendo innanzitutto dall’analisi delle ipotesi d’inefficacia degli atti compiuti dal fallito prima della dichiarazione d’insolvenza, onde poi verificare il campo applicativo ed i presupposti dell’azione revocatoria ordinaria e dell’azione revocatoria fallimentare, con sintetica menzione delle singole ipotesi specifiche e delle esenzioni, nonché con finale considerazione dei termini di decorrenza del periodo sospetto, anche in caso di consecuzione di procedure concorsuali.
L’art. 64 l. fall. sancisce l’inefficacia rispetto ai creditori degli atti a titolo gratuito eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, ad eccezione dei regali d’uso e degli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, ma a condizione che queste liberalità siano proporzionate al patrimonio del donante. Questa norma è espressione dell’intenzione del Legislatore di sanzionare con l’inefficacia gli atti a titolo gratuito avvenuti negli ultimi due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, sul presupposto che chi pone in essere uno di questi atti lo abbia fatto a causa o in previsione dell’insolvenza, quindi con la consapevolezza espressa di danneggiare i creditori. In altre parole, questa norma mira a tutelare l’interesse dei creditori del fallimento, anche a scapito di quello dei soggetti beneficiari degli atti a titolo gratuito, poiché qualsiasi atto finalizzato a ridurre o disperdere il patrimonio dell’impresa fallita, ove ricorrano le condizioni di legge, implica un’«intollerabile pregiudizio per i creditori» [1]. L’inefficacia opera in senso oggettivo ed automaticamente a fronte della semplice dimostrazione della gratuità dell’atto e della circostanza che quest’ultimo si sia perfezionato nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento. Infatti, come osservato da attenta dottrina, «nell’azione d’inefficacia ai sensi dell’art. 64 l. fall. importa soltanto la realizzazione dell’atto, in virtù della sua natura oggettiva, unicamente rapportata ad un elemento oggettivo temporale anteriore alla dichiarazione di fallimento, senza alcuna rilevanza di situazioni soggettivo ed in particolare della sussistenza (e quindi, tanto meno, della conoscibilità) dello stato di insolvenza dell’imprenditore» [2]. L’art. 64 l. fall. non precisa quali siano gli atti soggetti all’inefficacia, dovendo pertanto farsi riferimento, secondo le categorie tradizionali del diritto civile, a qualsivoglia atto eseguito in modo spontaneo ed in assenza di un corrispettivo, per effetto della quale si sia realizzata una diminuzione del valore del patrimonio del debitore, inteso come generale garanzia di adempimento delle obbligazioni di pagamento verso i creditori. In linea [continua ..]
L’art. 65 l. fall. sanziona con l’inefficacia i pagamenti eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento ed aventi ad oggetto crediti in scadenza nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente. Questa disciplina opera in senso oggettivo, poiché non ammette sindacato di merito da parte del giudice, e mira a colpire con l’inefficacia l’anormalità del pagamento di un debito in anticipo rispetto alla scadenza ed in prossimità della dichiarazione di fallimento del debitore, non essendo rilevante l’eventuale insolvenza al momento dell’atto solutorio, né lo stato soggettivo del terzo. Come puntualmente osservato dalla giurisprudenza di merito «nel proporre la domanda d’inefficacia di cui all’articolo 65 L.F., il curatore deve provare solo l’esecuzione del pagamento anticipato nel periodo sospetto, non essendo consentito al giudice alcuna valutazione in ordine all’eventuale presenza di ragioni tali da aver reso conveniente anticipare l’adempimento così da renderlo giustificato. L’inefficacia opera poi oggettivamente, essendo irrilevanti le condizioni soggettive sia di chi esegue il pagamento sia di chi lo riceve ed operando nella materia de qua una presunzione assoluta di illegittimità in base all’alto grado di anormalità dei pagamenti anticipati» [10]. In altre parole ed ai fini dell’applicazione della norma, è necessaria la sola dimostrazione del fatto oggettivo dell’anticipazione del pagamento rispetto alla sua scadenza originaria, sia essa convenzionale o legale. Per l’effetto e con particolare riguardo al caso del contratto di mutuo, la giurisprudenza è costante nel non attribuire alcuna rilevanza alla clausola contrattuale che, in deroga al disposto dell’art. 1816 c.c., attribuisce al mutuatario la facoltà di anticipare la restituzione di detta somma rispetto al termine originariamente pattuito [11]. Sono esclusi dal campo applicativo di questa norma i pagamenti anticipati di debiti con scadenza anteriore alla dichiarazione di fallimento, per i quali valgono le norme degli artt. 66 e 67 l. fall. La norma colpisce tutti i pagamenti anticipati, qualunque sia il mezzo utilizzato, normale o anormale. Per valutare il requisito dell’anticipazione rileva il fatto che il pagamento abbia avuto ad oggetto un debito [continua ..]
L’art. 66 l. fall. estende al curatore fallimentare, in luogo ed in sostituzione dei singoli creditori, la legittimazione a proporre azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., al fine di ottenere, ricorrendone i presupposti oggettivi e soggettivi, una dichiarazione d’inefficacia degli atti compiuti dal debitore in pregiudizio della massa. Quest’azione differisce dall’azione revocatoria fallimentare, poiché non richiede che il debitore sia insolvente e che la sua controparte abbia consapevolezza di uno stato di decozione. Il curatore in sede di revocatoria ordinaria, a differenza di quanto avviene in caso di revocatoria fallimentare, non è, infatti, gravato dall’onere di fornire la prova di questa conoscenza, ma è sufficiente che dimostri il semplice pregiudizio, per la massa dei creditori, dell’atto dispositivo posto in essere dal debitore poi fallito. Rispetto alla revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., l’azione di cui all’art. 66 l. fall. si discosta solo per la diversa portata, in quanto la prima, esercitata dal singolo creditore, giova esclusivamente a lui, mentre la seconda è esercitata dal curatore, con conseguente beneficio per tutti i creditori [12]. L’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore fallimentare conserva, per richiamo espresso del Legislatore, gli elementi costitutivi regolati dall’art. 2901 c.c., vale a dire l’esistenza di un credito, il presupposto oggettivo dell’eventus damni [13] ed ilpresupposto soggettivo del consilium fraudis. Quanto all’esistenza di un credito, è sufficiente, in sede di azione giudiziale per revocatoria, allegare all’atto introduttivo l’evidenza documentale dalla quale origina il credito, fornendone una descrizione. Ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria, è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui è sufficiente una ragione di credito anche eventuale, non essendo necessario che il diritto di credito sia certo e determinato nel suo ammontare, ed ancor meno che esso sia scaduto ed esigibile. Quanto precede trova conferma nella giurisprudenza che è costante nel ritenere che «poiché anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale [continua ..]
L’art. 67 della l. fall. costituisce la norma cardine della disciplina della revocatoria fallimentare contenuta nella Sezione III della legge fallimentare, poiché rappresenta il principale strumento di tutela della par condicio creditorum e di rispetto del divieto di alterazione del legittimo ordine dei privilegi. Questa disciplina è stata profondamente innovata dal Decreto Competitività n. 35/2005 e dal successivo Decreto Correttivo n. 5/2006, che, come meglio si vedrà nei prossimi paragrafi, hanno apportato alcune importati modifiche, quali il dimezzamento del periodo sospetto, la fissazione della misura della sproporzione di cui all’art. 67, comma 1, l. fall., l’ipotesi di revocabilità delle garanzie contestuali create per i debiti di terzi di cui all’art. 67, comma 2, l. fall., l’introduzione delle esenzioni da revocatoria di cui all’art. 67, comma 3, l. fall. e della disciplina della decadenza e del decorso del periodo sospetto di cui all’art. 69-bis l. fall. Passiamo, a questo punto, all’analisi dei presupposti di operatività della revocatoria fallimentare, onde poi esaminare i singoli casi di revocatoria e di esenzione da quest’azione.
Per molto tempo, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate su quale fosse il presupposto oggettivo dell’azione revocatoria fallimentare ex art. 67 l. fall. Da un lato, infatti, vi sono i fautori della c.d. teoria indennitaria, secondo cui la revocatoria fallimentare, al pari della revocatoria ordinaria, presupporrebbe la prova della sussistenza di un danno [24]; e, dall’altro lato, vi è chi ha sostenuto la c.d. teoria anti-indennitaria o redistributiva, che riconduce la ratio dell’istituto alla ripartizione delle perdite derivanti dall’insolvenza del fallito su tutti coloro che, nel periodo sospetto, hanno beneficiato di atti di disposizione patrimoniale, ancorché consapevoli dello stato di decozione, con conseguente presunzione juris ed de iure del danno [25]. Il contrasto è stato composto dalle Sezioni Unite di Cassazione che, accogliendo la teoria anti-indennitaria, hanno statuito che «l’“eventus damni” è "in re ipsa" e consiste nel fatto stesso della lesione della "par condicio creditorum", ricollegabile, per presunzione legale ed assoluta, all’uscita del bene dalla massa conseguente all’atto di disposizione. Per cui grava, in tal senso, sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell’acquirente, mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato dall’imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato (eventualmente anche garantito, come nella specie, da ipoteca gravante sull’immobile compravenduto) non esclude la possibile lesione della "par condicio", né fa venir meno l’interesse all’azione da parte del curatore, poiché è solo in seguito alla ripartizione dell’attivo che potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente all’esercizio dell’azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi» [26]. Questa conclusione, secondo la Cassazione, muove dal tenore del comma 1 e del comma 2 dell’art. 67 l. fall., con la conseguenza che “al legislatore [interessa] non tanto il rapporto commutativo del negozio quanto il recupero, comunque, di ciò che, uscendo dal patrimonio del debitore nell’attualità di una situazione di insolvenza, [continua ..]
La legge fallimentare distingue, quanto al presupposto soggettivo dell’azione revocatoria, gli atti “normali” dagli atti “anormali”, vale a dire gli atti che possono essere compiuti nel normale esercizio dell’attività d’impresa dagli atti che, ancorché possano essere compiuti nel corso dell’esercizio dell’attività d’impresa, presentano delle peculiarità che li riconducono a vere e proprie anomalie gestionali dell’imprenditore. Se intende chiedere la revocatoria fallimentare di atti “normali” posti in essere dal debitore nel periodo sospetto, il curatore deve provare l’esistenza del presupposto soggettivo della conoscenza da parte del convenuto, al tempo in cui è stato concluso l’atto, dello stato di insolvenza del debitore (c.d. scientia decoctionis). Se invece agisce per la revoca di un atto “anormale”, il curatore allora non deve fornire alcuna prova della scienza decoctionis, in quanto la legge presume che il convenuto che si sia avvantaggiato dell’atto anormale fosse a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito. In questo caso, infatti, vi è un’inversione dell’onere della prova per cui spetta al terzo dimostrare di non essere stato a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore al momento del compimento dell’atto. Il momento determinante ai fini della verifica della scientia decoctionis è il momento in cui il debitore, poi fallito, pone in essere il singolo atto revocabile, vale a dire la data di stipulazione del contratto, quella del pagamento o quella di costituzione della garanzia, non essendo rilevante se la conoscenza dello stato d’insolvenza interviene successivamente a tale momento [30]. La prova della scientia decoctionis si traduce nella dimostrazione che il terzo convenuto in revocatoria aveva una conoscenza effettiva e non solo potenziale dello stato d’insolvenza del debitore al momento del compimento del revocando atto, non essendo sufficiente la dimostrazione della semplice conoscibilità dell’insolvenza. In altre parole e come osservato dalla giurisprudenza, occorre verificare la concreta situazione psicologica del terzo e non l’astratta conoscibilità oggettiva delle condizioni economiche di controparte. In questo senso, infatti, la giurisprudenza di [continua ..]
Come anticipato, la legge fallimentare distingue il caso di revocatoria di atti “normali” dal caso di revocatoria di atti “anormali”, disponendo, quanto ai primi, l’onere per il curatore di provare l’esistenza del presupposto soggettivo della conoscenza da parte del convenuto, al tempo in cui è stato concluso l’atto, dello stato di insolvenza del debitore (c.d. scientia decoctionis), e, quanto ai secondi, la presunzione iuris tantum di conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito da parte del convenuto in revocatoria. Questa distinzione tra atti “normali” ed atti “anormali” ha delle ripercussioni sulla prova che il convenuto è tenuto a fornire per andare esente da revocatoria. Per sottrarsi alla revocatoria di un atto “normale”, il convenuto deve contrastare la prova fornita dal curatore a sostegno della revocatoria, allegando circostanze e fatti contrari dai quali emerge che la prova avversaria non è idonea a fondare la scientia decoctionis. Al contrario e per sottrarsi alla revocatoria di un atto “anormale”, il convenuto deve contrastare la presunzione iuris tantum, dimostrando, nella comparsa di costituzione e risposta a pena di decadenza, l’assenza del presupposto soggettivo, vale a dire che, nel momento in cui ha compiuto l’atto revocabile, non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, poi fallito (c.d. inscientia decoctionis). In altre parole, vi è una vera e propria inversione dell’onere della prova in forza del quale il convenuto in revocatoria deve fornire la prova positiva che, nel momento in cui è stato posto in essere l’atto revocabile, esistevano specifiche e concrete circostanze tali da far ritenere, ad una persona di media diligenza ed avvedutezza, che l’imprenditore si trovava in una situazione di ordinario esercizio dell’impresa. Questa impostazione è stata confermata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui «il convenuto in revocatoria non è ammesso a provare che, nel periodo suddetto, il debitore versava in una situazione di sola temporanea difficoltà ad adempiere, potendo solamente contestare la percezione dei sintomi del dissesto con l’allegazione, se del caso, dei fatti dimostrativi della propria [continua ..]
Ai fini della revocatoria fallimentare il curatore deve prendere in considerazione solo quella parte dell’attività del debitore (pagamenti, contratti, atti e costituzione di garanzie) compiuta in un periodo che la legge considera “sospetto” e che corrisponde ad un lasso di tempo che precede la data della sentenza dichiarativa di fallimento (o la data di un diverso provvedimento, in caso di consecuzione di procedura concorsuali). Per effetto del d.l. n. 35/2005, convertito nella legge n. 80/2005, i termini a ritroso per l’esercizio dell’azione revocatoria sono stati dimezzati e portati a due anni per gli atti a titolo gratuito, ad un anno per gli atti anormali ed a sei mesi per gli atti normali. Quanto alla decorrenza, il periodo sospetto è calcolato a ritroso a partire dalla data di pubblicazione a Registro Imprese della dichiarazione del fallimento, e non dalla data di deposito della sentenza in cancelleria. Quanto precede trova conferma nella giurisprudenza, secondo cui «le norme dettate dalla legge fallimentare in materia di inefficacia e revocabilità di atti fanno indistintamente riferimento, ai fini dell’individuazione del dies a quo di decorrenza a ritroso del periodo sospetto, alla data di dichiarazione del fallimento, il che, nel vigore del testo originario di tale normativa, senza dubbio indicava la data di pubblicazione della sentenza, intendendosi per tale la data di deposito in cancelleria. Tuttavia, l’attuale testo dell’art. 16, comma 2, l. fall., come risulta modificato a seguito delle recenti leggi di riforma, statuisce che l’efficacia verso i terzi della sentenza dichiarativa di fallimento comincia a decorrere dalla data della sua avvenuta iscrizione nel registro delle imprese. In materia revocatoria, il periodo sospetto decorre a far tempo non dalla data del deposito in cancelleria della sentenza dichiarativa di fallimento, ma dalla data di iscrizione della stessa nel registro delle imprese»[50]. Nel caso in cui la sentenza di fallimento fosse pronunciata da un tribunale incompetente, cui segue poi altra dichiarazione resa da tribunale competente, il periodo sospetto si computa a ritroso dalla data della prima sentenza dichiarativa di fallimento, ancorché emessa da un giudizio incompetente, così da conservare gli effetti sostanziali [51]. 9.1. Segue: La consecuzione tra procedure concorsuali Il d.l. 22 giugno [continua ..]
L’art. 67, commi 1 e 2, l. fall. disciplina le singole ipotesi di revocatoria fallimentare, distinguendo atti “anormali” e atti “normali”, con conseguente discrimine in termini di onere probatorio per il curatore che agisce in revocatoria. Nei successivi paragrafi verranno sinteticamente esaminate le singole ipotesi, con indicazione dei presupposti applicativi delle stesse. 10.1. Segue: Atti anormali La legge fallimentare individua quattro categorie di atti anormali, che, in quanto tali, sono sintomatici dello stato di insolvenza, vale a dire (a) gli atti con prestazioni sproporzionate, (b) i pagamenti anormali, e (c) le garanzie per debiti preesistenti non scaduti e per debiti preesistenti scaduti. Il requisito dell’“anormalità” si riporta, per insegnamento pacifico, all’estraneità degli atti e dei pagamenti ivi contemplati al normale andamento di un’attività d’impresa ed a quanto comunemente riscontrabile nella pratica degli affari: si tratta, in altre parole, di operazioni che, per la loro eccezionalità rispetto a ciò che quotidianamente accade nei rapporti imprenditoriali, racchiudono un connotato oggettivo di sospetto, tale da indurre l’interlocutore in bonis a domandarsi quale verosimile spiegazione possa essere data del loro carattere anomalo che non si riporti all’intenzione di ledere la garanzia patrimoniale dovuta al ceto creditorio e/o ad una situazione di dissesto. Il dato in esame è presente tanto nel caso di contratti a prestazioni corrispettive sproporzionati (poiché, di norma, nessuno aliena a prezzo vile i beni che compongono il suo patrimonio, se non vi sia costretto da impellenti bisogni di liquidità), quanto nell’ipotesi di garanzie non contestuali (giacché non è credibile che chi ha erogato credito allo scoperto richieda successivamente una garanzia se non gli siano pervenute notizie allarmanti sulla situazione economica del suo debitore). Ma è ugualmente presente, come tutti riconoscono, anche nella fattispecie dei pagamenti con mezzi anormali, la cui ragion d’essere si riporta al fatto che chi doveva dare denaro utilizza, invece, strumenti sostitutivi inusuali. La legge, in buona sostanza, muove dal presupposto che un tale comportamento, estraneo alla consueta dinamica dei rapporti d’impresa, denoti [continua ..]
L’art. 67-bis l. fall. – introdotto dalla riforma del 2006 – stabilisce la revocabilità degli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall’art. 2447-bis, comma 1, lett. a), c.c., a condizione che il beneficiario dell’atto sia a conoscenza dello stato d’insolvenza della società. Questa norma, secondo la dottrina, persegue lo scopo di sottrarre «il beneficio dell’autonomia patrimoniale ad alcuni beni utilizzati sensibilizzandoli, in deroga al principio di reciproca impermeabilità, alle vicende che interessano il patrimonio sociale, e di conseguenza, esponendo gli atti che incidono su di essi al rischio di revocatoria in caso di pregiudizio del patrimonio sociale [73]». Quanto al campo applicativo della norma, il Legislatore non ha specificato a quale tipologia di atti sia applicabile la disciplina revocatoria in esame. A tal riguardo, la dottrina, ancorché in assenza di specifica previsione di legge, ritiene che la particolare revocatoria di cui all’art. 67-bis l. fall. colpisca tutte le tipologie di atti, incidenti sul patrimonio destinato, riconducibili alle fattispecie disciplinate nell’art. 67, comma 1 e comma 2, l. fall. [74]. Non sembra altresì ragionevolmente possibile includere nel novero degli atti revocabili ex art. 67-bis l. fall. gli atti a titolo gratuito ex art. 64 l. fall. e i pagamenti ex art. 65 l. fall. Le ragioni di questa esclusione risiedono tutte nell’impossibilità di accumunare l’inefficacia degli atti di cui agli artt. 64 e 65 l. fall. alle ipotesi revocatorie, e ciò sotto molteplici profili. Sotto un profilo sostanziale, basta rilevare che gli artt. 64 e 65 l. fall. disciplinano, come anticipato nei precedenti paragrafi, ipotesi di natura meramente dichiarativa di inefficacia che opera automaticamente a condizione della dichiarazione di fallimento, mentre la sentenza che pronuncia la revoca ha natura costitutiva. Passando all’esame degli elementi di questa fattispecie, si rileva che la norma opera a condizione che sussistano i seguenti presupposti: (i) l’incidenza dell’atto sul patrimonio destinato ad uno specifico affare, (ii) il pregiudizio al patrimonio della società fallita arrecato dall’atto, e (iii) la conoscenza dello stato di [continua ..]
La legge fallimentare individua alcune ipotesi di esenzioni da revocatoria fallimentare, con conseguente ulteriore riduzione della possibilità di esperire il rimedio revocatorio nell’ambito della procedura fallimentare. (a) I pagamenti nei “termini d’uso” L’art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. dispone l’esenzione da revocatoria dei pagamenti eseguiti nel “termini d’uso”. Questa esenzione è finalizzata a favorire la conservazione dell’attività d’impresa [81] e consente all’imprenditore di eseguire pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio della normale attività d’impresa, ancorché nel corso del periodo sospetto. Per effetto di questa previsione, un atto solutorio compiuto nei “termini d’uso” non può essere revocato anche qualora sussista in capo ad una parte la conoscenza dello stato di insolvenza dell’altra parte. La giurisprudenza ha infatti osservato che la ratio della norma in esame è quella di «salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici in situazioni di normalità negoziale [82]». La dottrina, ricordato che i recenti interventi di modifica della legge fallimentare da parte del Legislatore sono caratterizzati dal favor verso composizione della crisi con strumenti diversi dal fallimento, ha osservato che questa esenzione ha rappresentato un primo intervento in questo senso e che la medesima ha fornito la base per la più recente normativa dei pagamenti autorizzati di cui all’art. 182-quinquies l. fall. [83]. Quanto all’applicazione pratica della norma in esame, dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate sul significato della locuzione “termini d’uso” e su quali siano le condizioni di applicabilità di questa esenzione da revocatoria fallimentare. Secondo la recente giurisprudenza di merito «il concetto di “termini d’uso” fa riferimento alle condizioni di tempo e di modo dei pagamenti normalmente in uso tra i contraenti ed in concreto pattuiti tra le parti, sempre che siano mezzi fisiologici e usuali di pagamento, mentre non possono divenire “termini d’uso” prassi patologiche e forme anormali di pagamento, non concordate dalle parti all’inizio del rapporto negoziale. In particolare, i pagamenti [continua ..]
L’art. 68 l. fall. dispone che è irrevocabile il pagamento di una cambiale se il possessore lo doveva accettare per non perdere il diritto ad esercitare l’azione cambiaria di regresso. Questa norma rappresenta una deroga alla disciplina della revocatoria, poiché il pagamento di una cambiale scaduta altro non sarebbe che il pagamento di un debito liquido, certo e esigibile, revocabile ai sensi dell’art. 67, comma 2, l. fall. [133]. In altre parole, il portatore di una cambiale che richieda il pagamento dell’importo recato dal titolo all’obbligato principale insolvente, può accettare il pagamento in quanto la legge fallimentare ne esclude espressamente la revocabilità, sul presupposto che se il portatore non accettasse, non potrebbe levare il protesto e sarebbe quindi esclusa la sua possibilità di agire contro gli obbligati in via di regresso. Quanto ai presupposti di operatività dell’esenzione da revocatoria in esame, occorre (i) la presenza di un obbligato in regresso e (ii) il pagamento del titolo mediante denaro al momento della scadenza. Questa disciplina si applica alla cambiale tratta, al vaglia cambiario, alla cambiale agraria ed all’assegno bancario [134]. La giurisprudenza ha osservato che sono, invece, esclusi dal campo applicativo della norma i casi di (i) pagamento eseguito alla scadenza dal trattario non accettante in favore del portatore del titolo che sia in rapporto cambiario diretto con il traente stesso [135], e (ii) pagamento accettato dal possessore già decaduto dal diritto di regresso, nonché quello ricevuto dal portatore proprio mediante l’esercizio dell’azione cambiaria di regresso [136]. Si osserva, infine, che la cambiale o simili strumenti di pagamento ben possono integrare una modalità di adempimento “anomala” ai sensi dell’art. 67, comma 2, n. 1, l. fall. Infatti l’art. 68 l. fall. prevede che il pagamento non possa essere rifiutato, solo quando avviene con denaro alla scadenza specificata nel titolo [137]. Al di là di questa fattispecie, il pagamento potrebbe essere giudicato rilevante direttamente ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2 l. fall., qualora si registrasse un’“irritualità” delle modalità di pagamento. In questo caso, il curatore potrebbe quindi [continua ..]
L’art. 69 l. fall. disciplina la revocabilità degli atti compiuti tra coniugi, con particolare riguardo agli atti a titolo oneroso di cui all’art. 67 l. fall., se compiuti quando il fallito esercitava un’attività d’impresa commerciale, ed agli atti a titolo gratuito se compiuti più di due anni prima della dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito esercitava un’attività d’impresa. Questa disciplina prevede un regime particolarmente rigoroso, poiché l’unica condizione di applicabilità della norma è che sussista la qualità di coniuge al momento del compimento dell’atto di cui si chiede l’inefficacia. In questo caso, infatti, l’atto è revocato, salvo che il coniuge non fornisca la prova che ignorava lo stato d’insolvenza del coniuge fallito. La ragione di questa rigida disciplina trova fondamento, come osservato da attenta dottrina, nel fatto che «il coniuge [è] il complice naturale dell’imprenditore insolvente nel porre in essere atti pregiudizievoli ai creditori» [138]. Il rigore di questa disciplina è confermato anche dalla giurisprudenza, la quale ha affermato che rientra nel novero degli atti sanzionabili con l’inefficacia ex art. 69 l. fall. l’accordo di separazione consensuale, ancorché omologato dal tribunale, con cui il coniuge fallito dispone una riduzione del proprio patrimonio a favore dell’altro coniuge [139]. Il rapporto di coniugio rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 69 l. fall. deve esistere al tempo di compimento dell’atto, non essendo rilevante che si tratti di matrimonio putativo ovvero che in un momento successivo sia venuta meno la qualità di coniuge per intervenuta separazione o divorzio oppure per annullamento del matrimonio. Secondo autorevole dottrina, la disciplina in esame trova applicazione anche agli atti compiuti durante lo stato d separazione personale e fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio [140]. Nessuna rilevanza, secondo la dottrina, ha invece la convivenza more uxorio [141]. La disciplina di cui all’art. 69 l. fall. si distingue da quella dell’art. 64 l. fall. perché la revoca degli atti a titolo gratuito compiuta oltre i due anni [continua ..]
L’art. 69-bis, comma 1, l. fall., inserito dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, introduce un duplice limite temporale per l’esercizio di le azioni revocatorie di cui alla Sezione III che «non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell’atto». Questi termini hanno lo scopo di soddisfare l’interesse a che certi atti non rimangano "instabili" per un periodo rilevante di tempo [143]. Come correttamente osservato dalla giurisprudenza di merito “i termini indicati dal primo comma dell’articolo 69 bis, entro i quali devono essere promosse le azioni revocatorie, hanno natura di termini di decadenza e non di prescrizione e possono essere interrotti solo dalla proposizione della domanda che costituisce modalità di esercizio dell’azione” [144]. La conseguenza pratica della natura decadenziale di questi termini è che questi non possono essere in alcun modo interrotti, né sospesi, in quanto il verificarsi della decadenza può essere impedito soltanto dall’esercizio in giudizio dell’azione revocatoria. È discusso l’ambito applicativo della norma in esame, poiché la dottrina è divisa tra chi ritiene che il doppio termine decadenziale sia applicabile all’azione revocatoria ordinaria ex art. 66 l. fall. ed alle azioni d’inefficacia di cui agli artt. 64 e 65 l. fall. Quanto all’art. 66 l. fall., pare prevalere la tesi che estende l’applicazione del doppio termine decadenziale, sull’assunto che l’azione revocatoria ordinaria è, come l’azione revocatoria fallimentare, un’azione costitutiva. Quanto precede trova conferma nella giurisprudenza di merito che ha recentemente sostenuto l’estensione dell’applicazione del doppio termine decadenziale di cui alla norma in esame anche alla revocatoria ordinaria esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 66 l. fall., affermando in particolare che «il curatore decade dall’azione revocatoria (...) ex art. 66 l.f. se essa non sia esercitata entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento, salvi gli effetti di (...) prescrizione dell’azione revocatoria ordinaria nel fallimento ex art. 66 l.f. verificatasi per il precedente avvenuto decorso di cinque anni dalla data dell’atto da revocare [145]». Quanto, [continua ..]
L’azione revocatoria ha finalità restitutoria o recuperatoria, non nel senso che quest’azione produce il trasferimento della proprietà dei beni oggetto dell’atto revocato nel patrimonio del fallito, bensì nel senso che determina, a carico del convenuto soccombente, l’obbligo di restituire il bene al patrimonio attivo del fallimento, affinché possa essere destinato a soddisfacimento dei creditori concorsuali. Al pari della revocatoria ordinaria, la revocatoria fallimentare non determina la nullità dell’atto tra le parti ma solo la sua inefficacia nei confronti della massa dei creditori. In altre parole, la sentenza di revoca non produce l’automatico trasferimento della proprietà dei beni oggetto dell’atto revocato nel patrimonio del fallito, bensì determina, a carico del soggetto soccombente, l’obbligo di restituire il bene al patrimonio del fallito e quindi alla garanzia dei creditori. Secondo l’orientamento oggi prevalente in giurisprudenza, la sentenza di revoca ha natura costitutiva e non dichiarativa [148]. Si è discusso se sia necessario attendere il passaggio in giudicato della pronuncia di revoca o se, al contrario, alla stessa si applichi la regola della provvisoria esecutività di cui all’art. 282 c.p.c. La giurisprudenza più recente sostiene che «gli effetti esecutivi della sentenza di condanna rispetto a quelli della pronuncia costitutiva si producono solo con il passaggio in giudicato della decisione in forza del principio enunciato dalle S.U. n. 4059/2010 secondo cui l’art. 283 c.p.c. esclude che le sentenze di accertamento o costitutive e quelle di condanna possano dispiegare i loro effetti immediatamente ossia prima del loro passaggio in giudicato, in quanto alle stesse non si applica il procedimento disciplinato dal terzo libro del codice di procedura civile [149]». In applicazione dell’anzidetto principio, l’obbligo restitutorio del bene oggetto dell’atto revocato sorge solo per effetto della definitività della sentenza di revoca. Quanto all’obbligo restitutorio, occorre distinguere il caso in sia oggetto di revoca un pagamento, un contratto o una garanzia. Sul punto e con preciso riferimento all’obbligo restitutorio di un pagamento in denaro, si è espressa recentemente anche la giurisprudenza di merito, secondo cui «in tema di [continua ..]
L’art. 70, comma 1, l. fall. dispone, in caso di pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, procedure di compensazione plurilaterale o società previste dall’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1966, la revocatoria di questi pagamenti si esercita e produce effettivi verso il destinatario della prestazione. Questa norma mira a tutelare colore che si sono resi intermediari tra la società, poi fallita, ed i suoi creditori, individuando in quest’ultimi i destinatari passivi dell’azione revocatoria. In questo caso, così come nel caso in cui non vi sia l’intervento di un intermediario, trova applicazione, quanto ai diritti del terzo revocato, l’art. 70, comma 2, l. fall., secondo cui il convenuto soccombente in revocatoria, a condizione che abbia restituito al curatore quanto revocato, possa proporre domanda di ammissione al passivo per il collegato credito, ove la revocatoria abbia ad oggetto un pagamento, un contratto o altro atto a titolo oneroso. L’art. 70, comma 2, l. fall. sostituisce l’abrogato art. 71 e rappresenta la norma di chiusura della sezione dedicata agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, prevedendo il diritto d’ammissione allo stato passivo fallimentare del terzo soccombente convenuto in revocatoria, il quale abbia restituito una somma di denaro per effetto d’una sentenza d’inefficacia e/o di revoca. Quest’ammissione, come noto, presuppone un atto d’effettiva restituzione e non è automatica, non potendo essere disposta con la sentenza d’inefficacia e/o di revoca e, anzi, dovendo essere oggetto d’una espressa domanda ai sensi dell’art. 101 l. fall. [151]. Innanzi al combinato, e potenzialmente contrastante, disposto degli artt. 70 e 101 l. fall., si registrano, in assenza di precedenti giurisprudenziali editi sulla vigente disciplina, due orientamenti dottrinali. Il primo che considera l’art. 70 l. fall. norma speciale derogativa di quella generale di cui all’art. 101 l. fall. sul presupposto che la causa generatrice del credito sorge con la restituzione dell’importo revocato, con conseguente (e sostanzialmente automatica) non imputabilità del “ritardo” del tempo d’insinuazione [152]. Il secondo che, all’opposto, ritiene prevalente la norma generale dell’art. 101 legge fall. su quella [continua ..]
Meritevole di attenzione e disamina è la fattispecie relativa all’opponibilità all’assuntore di concordato fallimentare, in caso di sua prosecuzione di azione revocatoria in sostituzione di un fallimento, dell’eccezione di scomputo della percentuale chirografaria dalla somma dovuta per l’ipotesi di soccombenza del convenuto revocando. L’art. 124, ultimo comma, l. fall. ammette la possibilità per l’assuntore di limitare gli impegni concordatari nei confronti dei soli creditori che, al tempo del deposito della proposta, siano stati ammessi allo stato passivo e di quelli che, allo stesso tempo, abbiano proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva, con conseguente assenza di obblighi di pagamento nei confronti di coloro che divengano creditori concorsuali in un momento successivo; creditori rispetto ai quali permane la responsabilità del debitore fallito, salvo il caso di sua esdebitazione ai sensi dell’art. 142 l. fall. Nel contempo, lo stesso art. 124, comma 3, l. fall. autorizza l’assuntore a rendersi cessionario, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del loro fondamento. Ora, tenuto conto che tra queste azioni sono incluse anche le azioni revocatorie di cui all’art. 67 l. fall., è possibile il caso in cui un assuntore, cessionario d’una di queste azioni, decida di proseguirla nei confronti della convenuto revocando, con la conseguenza che questo, ove soccombente, si vedrebbe precluso la possibilità di presentare domanda d’ammissione allo stato passivo ai sensi dell’art. 70 l. fall., essendosi chiusa la procedura fallimentare che aveva promosso l’azione per effetto dell’omologazione della proposta concordataria. Questo essendo il caso di riferimento, occorre valutare se il convenuto revocando possa fondatamente opporre all’assuntore, che prosegua un’azione revocatoria, l’eccezione di scomputo della percentuale riconosciuta ai creditori chirografari concordatari dall’importo che, all’esito del giudizio, dovesse essere revocato e, pertanto, reso oggetto d’una sentenza di condanna di restituzione. La questione è stata dibattuta, se pur in termini non particolarmente approfonditi, anche prima della riforma [continua ..]