Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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Le novità della riforma del terzo settore nella disciplina giuslavoristica (di Fiorella Lunardon)


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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Le fonti - 3. Il trattamento economico e normativo dei lavoratori del terzo settore - 4. Il volontariato - 5. Il numero dei volontari - NOTE


1. Premessa

Nonostante sia animato da tensioni sociali, il diritto del lavoro è sempre stato vissuto come antitetico al c.d. “terzo settore”. L’art. 2094 c.c. definisce il rapporto di lavoro subordinato come strutturalmente oneroso: “è prestatore di lavoro subordinato colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa …”. Il patto di esclusione del compenso è un patto illecito [1]. A valle di questa premessa non è difficile comprendere perché nel contesto della riforma operata dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo Settore) i profili giuslavoristici non acquistino un rilievo determinante. Su questo versante, lo spazio più cospicuo è occupato dalle modifiche della disciplina del volontariato, che in ogni caso presuppone l’inesistenza di un qualsiasi rapporto di lavoro con l’ente o l’associazione di appartenenza [2]. Oltre a questo nucleo normativo c’è poi una esigua parte della riforma che riguarda il lavoro nel mercato, vale a dire il lavoro subordinato, autonomo, parasubordinato, ovvero di collaborazione coordinata continuativa. Certo possono mutare i contesti di riferimento, perché nel terzo settore agiscono diversi enti quali le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, l’impresa sociale e quindi la cooperativa sociale, oggi ricondotta di diritto allo schema dell’impresa sociale secondo quanto ha appena puntualizzato il professor Bonfante. Per il diritto del lavoro, tuttavia, il contesto entro il quale viene eseguita la prestazione non è in sé così determinante, atteso che, dovunque si sia, se si è in presenza di una prestazione di lavoro subordinato si applica inderogabilmente la disciplina tipica protettiva.


2. Le fonti

Le disposizioni di cui mi occuperò sono contenute nel c.d. Codice del terzo settore, il d.lgs. n. 117/2017, come corretto dal d.lgs. n. 105/2018. All’interno di questo settore è collocata la disciplina delle imprese sociali alle quali, come in un sistema a scatole cinesi, è ricondotta la disciplina delle cooperative sociali. Come a dire che nel terzo settore agiscono le imprese sociali che hanno una disciplina a parte (d.lgs. n. 112/2017, corretto anch’esso dal d.lgs. n. 95/2018), le quali comprendono le cooperative sociali che a loro volta fruiscono di una ulteriore disciplina a parte (l. n. 381/1991). In questa tripartizione dunque ogni fonte idealmente ricomprende l’altra ma senza disciplinarla completamente. Nel d.lgs. n. 117/2017 l’attenzione cade sull’art. 16 (che riguarda il lavoro nel mercato) e sugli artt. 17 ss. (che riguardano il rapporto di lavoro del volontario) [3].


3. Il trattamento economico e normativo dei lavoratori del terzo settore

Prima della riforma de qua era stata emanata una norma del 2007 (art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007) che per le società cooperative prevedeva, “in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria”, l’appli­cazione ai propri soci lavoratori di “trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale”. L’art. 16, primo periodo, del Codice del terzo settore prevede ora che “i lavoratori del terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81” [4]. Entrambe le disposizioni acquistano un più preciso significato se vengono confrontate con l’art. 14 della precedente legge sull’impresa sociale (la l. n. 155/2006 oggi sostituita dal d.lgs. n. 112/2017), alla cui stregua ai lavoratori dell’impresa sociale non poteva essere corrisposto “un trattamento economico e normativo inferiore a quello previsto dai contratti e accordi collettivi applicabili”. Il mero termine “applicabili” non offriva garanzia alcuna sulla qualità del contratto collettivo prescelto. Oggi dunque, a fronte del problema dei c.d. “contratti pirata” [5], il legislatore della riforma del terzo settore ha optato per l’adozione di quello che ormai è un criterio comune, vale a dire per la selezione del contratto collettivo più “affidabile” attraverso la valutazione della qualità (misurata in termini di rappresentatività comparata) dei soggetti sindacali che lo hanno stipulato. Non è certo questa la sede per approfondire la questione dell’identità del sindacato comparativamente più rappresentativo. Mi limito a dire che tale sog­getto coincide grosso modo con il sindacato storico tradizionale classicamente definito come maggiormente rappresentativo [6]. Poi è vero che l’avverbio “comparativamente” allude ad una comparazione tanto da potersi dedurre, secondo qualche autore, l’obbligo in capo al giudice di attivarsi per scegliere il contratto giusto, ovvero quello stipulato dal sindacato che rappresenta il maggior numero di lavoratori in una [continua ..]


4. Il volontariato

Per il diritto del lavoro quello del volontario è un rapporto spurio. La legge quadro n. 266/1991 l’aveva comunque già regolamentato. L’art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 117/2017 definisce il volontario come “una persona che per sua libera scelta svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fine di lucro, neanche indiretto, ed e­sclusivamente per fini di solidarietà”. La definizione è affascinante, pur se sicuramente un po’ prolissa, trovandovisi ripetuti concetti che per il giurista basterebbe fossero indicati una sola volta. La differenza più cospicua rispetto alla definizione fornita dalla legge del 1991 sta nel fatto che prima il volontario poteva svolgere la sua attività solo tramite l’organizzazione di cui faceva parte [8], mentre ora la disposizione recita “anche per il tramite di un ente del terzo settore”, con ciò intendendo ricomprendere nella fattispecie anche il cosiddetto volontariato individuale, che agisce ed opera senza il filtro di una istituzione. Il Codice introduce poi l’obbligo del registro disponendo che tutti i volontari non occasionali vi si devono iscrivere e così accentuando la differenza tra il volontariato non occasionale (continuativo), in forza del quale un soggetto pone a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per il tramite di un Ente o un’organizzazione e il volontariato libero/occasionale, ora preso in considerazione dalla definizione legale. In verità le disposizioni legislative si applicano solo al volontario che svolge la sua attività attraverso una struttura. La legge ribadisce infine, ma non è una novità, l’incompatibilità della prestazione del volontario con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato, autonomo ecc. e ogni altro rapporto di lavoro retribuito (art. 17, comma 5, d.lgs. n. 117/2017). Trattasi di una clausola di salvaguardia, tesa ad evitare le ben note tentazioni da entrambe le parti di simulare/dissimulare il lavoro subordinato, escludendo in radice l’esistenza di un rapporto di [continua ..]


5. Il numero dei volontari

Alla stregua dell’art. 32 del d.lgs. n. 117/2017 le organizzazioni di volontariato (e allo stesso modo le associazioni di promozione sociale di cui all’art. 35 e seguenti) si avvalgono “in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati”. Tali organizzazioni patiscono quindi limitazioni nell’assunzione di lavoratori dipendenti o autonomi (o di altra natura) tanto che i lavoratori impiegati non possono superare il 50% del numero dei volontari. Nelle imprese sociali è invece il numero dei volontari che non “può essere superiore a quello dei lavoratori” (art. 13, d.lgs. n. 112/2017), salvo specifiche discipline. Questa è una novità perché in precedenza l’attività di volontariato in tali imprese era ammessa nei limiti del 50% dei lavoratori impiegati a qualunque titolo (art. 14, l. n. 155/2006). Perplessità sono state espresse da chi rileva come “la liberalizzazione così operata nell’utilizzo quantitativo del volontariato … potrebbe inasprire nel settore della cooperazione sociale la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro, rendendo più competitive quelle cooperative che facciano massivo utilizzo del volontariato” [9]. Deve infine ricordarsi che nelle cooperative sociali, per disposizione antica, i soci volontari non possono superare il 50% del numero complessivo dei soci e, per le cooperative sociali di tipo b), persiste altresì l’obbligo che almeno il 30% dei lavoratori siano persone svantaggiate (art. 4, comma 1, l. n. 381/1991). L’as­senza nella legge di riforma di qualsiasi coordinamento con siffatte disposizioni “numeriche” determina situazioni di incertezza che certo non aiutano a dissipare le nebbie in cui finora hanno operato molti Enti del terzo Settore [10].


NOTE