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La legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), fra i suoi incontabili (quasi mille) commi, ne dedica nove (da 376 a 384) ad una nuova figura di società chiamata “società benefit” che è stata salutata dai media con annunci entusiastici come strumento che vuole riscrivere l’economia [3]. Prima di accingerci ad esaminarne il contenuto proviamo a capire le sue radici. Il prototipo è sicuramente quello statunitense, come si legge nella Relazione al disegno di legge n. 1882 presentato al Senato il 17 aprile 2015 dal senatore Del Barba ed altri, che poi è stato incorporato nella legge omnibus di “stabilità”. In quell’ordinamento giuridico infatti è nato l’istituto che ha dato, oltre che il nome alla nuova figura di società, anche l’impostazione generale del suo contenuto: coesistenza nello stesso ente dello scopo di lucro con lo scopo sociale, definizione del beneficio comune, soggetti responsabili delle finalità sociali, relazione allegata al bilancio, valutazione dei risultati, possibilità di fregiarsi del titolo di “società benefit”. Ma come è avvenuto questo transplant?
Si è cominciato nel 2010 con la legge del Maryland chiamata Maryland Benefit Corporation, approvata il 13 aprile 2010, entrata in vigore il 1 ottobre 2010, il cui contenuto può così essere sintetizzato. a) Innanzitutto permette ad una società lucrativa di essere costituita (o trasformata, se già costituita) per perseguire una duplice finalità: il lucro per i soci e la comunità e l’ambiente per gli altristakeholders. b) Il perseguimento del beneficio comune, definito come “material, positive impact on society and the environment, as measured by a third-party standard, through activities that promote a combination of specific public benefits” (paragrafo 6 C (6) A), deve essere esplicitato nello statuto. c) Secondo il paragrafo 6 C (1) D, ilpublic benefitpuò consistere in – offrire a individui o comunità prodotti o servizi utili; – promuovere l’opportunità economica per individui o comunità al di là della creazione di posti di lavoro nel normale svolgimento dell’attività economica; – preservare l’ambiente; – migliorare la salute umana; – promuovere le arti, le scienze o lo sviluppo della conoscenza; – aumentare il flusso di capitali ad entità aventi lo scopo di beneficio pubblico; – la realizzazione di qualsiasi altro particolare beneficio per la società o l’ambiente [4]. d) Per la conversione (da uno statuto “profit” ad uno statuto “profit + public benefit) è necessaria la maggioranza dei 2/3 di ogni categoria di azioni. e) La valutazione dei risultati deve essere fatta da un terzo sulla base di criteri oggettivi dallo stesso stabiliti[5]. f) La relazione deve accompagnare il bilancio. g) Gli azionisti hanno un’azione diretta per controllare se il loro investimento “sociale” ha funzionato come doveva. h) Il nuovo status dibenefit corporationdeve essere indicato in tutti i mezzi di comunicazione, inclusi carta intestata, certificati azionari ecc. i) Il “benefit director” non sarà personalmente responsabile per un attocommissivo od omissivo fatto nel perseguimento dello scopo benefico, a meno che ci sia dolo o violazione di legge. l) I terzi destinatari deibenefitsindicati nell’oggetto [continua ..]
Cerchiamo ora di passare velocemente in rassegna le nuove norme, entrate in vigore il primo gennaio 2016, contenute dal comma 376 al comma 382 della citata legge di stabilità. Ai sensi del comma 376 le società benefit uniscono, al normale scopo sociale di divisione degli utili, anche “una o più finalità di beneficio comune”. Ed al comma 378 troviamo la definizione di beneficio comune: perseguire “uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376”. Dobbiamo allora tornare al comma 376 per identificare le categorie: “persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”, verso le quali (“categorie”) le B-corp devono operare in modo “responsabile, sostenibile e trasparente”. Chi sono gli “altri portatori di interesse” ce lo dice nuovamente il comma 378: i soggetti coinvolti nell’attività della B-corp, quali “lavoratori, clienti fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile”. Cercando di uscire da questo gioco dell’oca, di rimandi da un comma all’altro, pare che il legislatore italiano abbia voluto lasciare un amplissimo margine di manovra all’imprenditore che desideri costituire una B-corp., il quale potrà porre in essere qualsiasi azioni o omissione [20], purché finalizzata a far del bene (effetti positivi), o far meno male (ridurre gli effetti negativi), verso una vastissima cerchia di soggetti, interni o esterni alla società stessa. Veniamo al comma 377. Le finalità di beneficio comune devono essere “indicate specificatamente nell’oggetto sociale … e sono perseguite mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto”. Viene poi precisato che possono essere società benefit tutte le tipologie di società, di persone o di capitale, cooperative comprese, previste dal codice civile, a conferma che non è stato intaccato il principio di tipicità delle società. Nel comma 379, a parte la ripetizione di quanto già detto dal legislatore al comma 377, e cioè che le finalità [continua ..]
Come sarà noto, tra i diversi compiti assegnati all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, il legislatore, in diversi momenti, ha pensato che quest’ultima debba sobbarcarsi l’onere di vigilare (e sanzionare!) il comportamento delle imprese in materia di pubblicità ingannevole, disciplinata dal d.lgs. 145/2007, ed in materia di pratiche commerciali scorrette, disciplinata all’interno del Codice del Consumo, ed in particolare dagli artt. 18 e ss., d.lgs. 206/2005. Emerge allora dal comma 384, che come abbiamo visto demanda all’AGCM il controllo su questi aspetti, una traccia piuttosto evidente di quello che sarà l’uso che gli imprenditori vorranno fare delle B-Corp, perché il legislatore ha già anche pensato di porre sin da subito un valido arresto ad eventuali abusi: gli imprenditori potranno sfruttare la “nuova” società per le sue potenzialità commerciali, pubblicitarie o divulgative nelle varie forme note agli esperti, a condizione che rispettino le norme sopra citate. Gli esempi dello sfruttamento commerciale li abbiamo visti scrutando oltre oceano, ma sono già presenti anche da noi [21]. Infatti, fa breccia tra i consumatori il “cibo a km zero”, la produzione “green”, le “emissioni a basso impatto ambientale”, i prodotti biologici, ed allora, perché non preferire i beni prodotti o i servizi resi da una società benefit? Ecco l’uso, la pubblicità che l’imprenditore può fare di se aggiungendo al proprio nome il suffisso “SB” “B-corp.” o “società benefit”. Ma se poi un consumatore o una delle tante associazioni dei consumatori (o un concorrente che fa arrivare la soffiata! [22], dovessero scoprire che la Gamma S.p.a. SB, pubblicizza il proprio “SB” dappertutto, sui manifesti, negli spot televisivi, sui prodotti, ma poi quel bilanciamento degli interessi dei soci con lo scopo “benefit” non viene perseguito dai propri amministratori e resta sulla carta? Oppure se si accertasse che la società ha redatto una relazione sul perseguimento del beneficio comune del tutto falsa? O solo non sufficientemente “esauriente ed articolata” oppure non “credibile e trasparente”? In questo caso si potrà configurare una ipotesi di pratica commerciale [continua ..]
La prima domanda alla quale occorre dare una risposta è se c’era bisogno di questa legge oppure se gli stessi obiettivi si potevano raggiungere con le figure già esistenti nel variegato panorama giuridico italiano. Intendiamo riferirci a tutte le figure di impresenon profitgià presenti, dalle cooperative sociali alle società sportive dilettantistiche, alle imprese sociali (d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155) [25] alle mutue assicuratrici e a tutte le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) di cui al d.lgs. 4 dicembre 1997 (queste ultime con scopi che sono sostanzialmente gli stessi affidati alle società benefit), per menzionare solo le più evidenti epifanie del fenomeno. Ma allora sorge un altro dubbio: che, visti gli scarsi risultati di tutte le società non profit e le imprese sociali (e soprattutto gli scandali perpetrati attraverso o a beneficio delle stesse) si sia voluto provare con qualcosa di mezzo tra i due estremi (del lucro, da un lato, e del “sociale”, dall’altro), tanto è vero che si parla di “low profit” [26], o di “a metà tra profitto e bene comune” [27]. Il “tramonto dello scopo di lucro”, dopo un lungo dibattito in dottrina, era già da tempo constatato ed accettato nella teoria della società in diritto italiano [28] e, vista “l’indiscriminata proliferazione delle società di diritto speciale”, [29] aveva portato a chiedersi se la distinzione tra le organizzazioni collettive del libro primo del codice (le associazioni e le fondazioni) e quelle del libro quarto (le società) si riducesse ormai “a nulla di più che ad un mero nominalismo” [30], facendo emergere la conclusione della “neutralità” della forma e struttura per svolgere un’attività economica. C’è tuttavia una differenza abbastanza importante: le non-profit hanno ancora e sempre il marchio della non distribuibilità ai soci né degli utili né delle riserve, in modo diretto o indiretto, come pure della non devoluzione ai soci del patrimonio della società al momento dello scioglimento, mentre nelle società benefit tale divieto non esiste (anche se per finanziare l’attività volta al public [continua ..]