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1. Premessa - 2. Il trasferimento di azienda: un campo (ancora) problematico - 3. Trasferimenti 'anomali' di azienda: una casistica - 4. L'abuso del diritto nella cessione di complessi aziendali. Tre casi paradigmatici - Note
Discorrere del trasferimento di azienda nel diritto commerciale significa affacciarsi su un orizzonte di rara ampiezza, poiché il diritto commerciale disciplina l’azienda con un certo numero di norme, non moltissime, che non hanno subito modifiche significative nel corso degli ultimi ’70 anni (dal 1942) rispetto alla loro originaria formulazione. Poiché dunque siamo di fronte ad istituti classici del diritto commerciale ed è elevato il rischio di annoiare il lettore con riflessioni note e banali, vorrei impostare la trattazione cercando di individuare ipotesi specifiche di trasferimento d’azienda che possono presentare profili per certi versi anomali rispetto alle situazioni più comuni e ormai «classiche»; inoltre vorrei anche provare a ragionare, con qualche riferimento a casi concreti recenti, sul tema dell’abuso del diritto nel trasferimento di azienda.
Nonostante decenni di elaborazione giuridica, anche di elevatissima qualità (si pensi agli studi di giuristi quali Cottino, Colombo, Galgano, Auletta, Candina, Pugliatti, etc.) la disciplina del trasferimento d’azienda rimane ancora un campo problematico del diritto commerciale. Su questi temi la dottrina si è ampiamente cimentata nel corso del tempo e tra le questioni di vertice su cui ancora si oggi si discute troviamo quella relativa alla natura giuridica dell’azienda. Su questo terreno come è noto si sono affrontate sul campo prevalentemente due teorie (universalistica e atomistica) ed è poi emersa, come spesso accade, una concezione intermedia che coglie elementi entrambe le teorie. I sostenitori della prima tesi ritengono che l’azienda sia un’universalità di beni, sostenuti in ciò dal sintagma che si legge nell’art. 670 c.p.c. (sequestro di azienda o di «altre universalità di beni»); teoria però che si è scontrata con una serie di considerazioni anche operative e pratiche perché non si riesce a ricondurre l’azienda nel concetto tipico di universalità di beni che leggiamo nell’art. 816 cod. civ. («pluralità di cose che appartengono alla stessa persona»), dato che al suo interno possono esserci beni che non «appartengono» (i.e.: non rientrano nella titolarità) all’imprenditore: si pensi ai beni in leasing, in locazione, in comodato, in conto lavorazione, etc. C’è, in altri termini, una forte disomogeneità del «titolo» sul bene che non si concilia con la definizione codicistica. Senza considerare che molti indici normativi che troviamo nel codice civile inducono a qualificare l’azienda, da un punto di vista civilistico, come un bene unitario piuttosto che come aggregazione di beni (artt. 2556, 2557, 2561 c.c.). Sul versante opposto, i sostenitori della teoria atomistica ritengono che l’azienda sia solo un’espressione lessicale riassuntiva di una pluralità distinta di beni, su ciascuno dei quali l’imprenditore dispone di diritti diversi. Sono emerse – come dicevo – anche teorie intermedie che tendono a valorizzare (in un modo molto aderente alla realtà) il fatto che l’azienda sia un’entità prevalentemente economica composta da pluralità di beni che restano [continua ..]
Affronteremo ora il tema delle forme atipiche di trasferimento d’azienda; non starò a soffermarmi sulle forme classiche e tipiche del trasferimento d’azienda come ad esempio compravendita e donazione, note a tutti. Uno dei terreni sui quali più spesso si assiste ad operazioni anomale di trasferimento di azienda è quello della successione generazionale. Non sempre la disposizione testamentaria comune è uno strumento idoneo per assicurare un passaggio non traumatico (e non problematico) fra generazioni, sicché è frequente il ricorso ad altri schemi giuridici. Una delle forme anomale ricorrenti è la cessione indiretta riguardo alla quale ho individuato alcune ipotesi: (a) il ricorso ad atti di liberalità atipici; (b) il conferimento d’azienda; (c) il ricorso a vincoli di destinazione; (d) il trasferimento di partecipazioni. (a) Nella prima ipotesi rientrano tutte quelle operazioni che – muovendo da una finalità di liberalità, cioè volontà di effettuare un’attribuzione di natura patrimoniale senza corrispettivo – ricorrono a meccanismi o a negozi diversi dalla donazione vera e propria, vale a dire a negozi che hanno causa giuridica differente. Si pensi ad esempio al soggetto che vuole acquisire un complesso aziendale ma con la prospettiva di assegnarlo ad un futuro successore e desideri fin da subito organizzare questa operazione: è possibile ipotizzare che venga concluso un negozio di cessione a titolo oneroso del complesso aziendale fra cedente e futuro destinatario finale (e dunque non con il cessionario interessato all’acquisto), gravando però quest’ultimo dell’onere dell’acquisto. Ovviamente non è questa la sede per una disamina di dettaglio dell’operazione. Segnalo che questo meccanismo consente vantaggi fiscali ma parallelamente solleva anche una serie di interrogativi a riguardo, sui quali è bene che i consulenti si soffermino con particolare attenzione. I dubbi emersi riguardano, in particolare, la validità di questo tipo di negozio: chiedersi se sia lecito o illecito non è ozioso anche se, volendo applicare le recenti e consolidate teorie della «causa in concreto» (ma lo diceva già Ascarelli negli anni Cinquanta!), e dunque osservando la finalità ultima del negozio, pare possibile rispondere positivamente. Ci si [continua ..]
Concludo il mio intervento segnalando tre casi di operazioni di cessione di azienda caratterizzati da condotte abusive. Il primo è un caso «storico» ma con profili di attualità, il famoso caso «Termoregolatori Campini», i cui provvedimenti sono stati tutti pubblicati su Giurisprudenza Italiana fra il 2000 e il 2001 con commenti di Gastone Cottino (ultimo, App. Milano, 22 ottobre 2001). Termoregolatori Campini s.r.l. era una società operativa il cui statuto stabiliva come termine il 31 dicembre 1999. Poiché la maggioranza dei soci non era in grado di deliberare la proroga del termine stante l’opposizione di una minoranza qualificata, l’organo amministrativo decise di adottare una soluzione tranciante: conferire tutto il complesso aziendale all’interno di una nuova azienda controllata al 100% dalla vecchia società operativa. Ciò determinò la prevedibile reazione della minoranza che impugnò la decisione lamentando la violazione delle competenze assembleari (in allora l’art. 2361 cod. civ. era l’unico riferimento); dopo una ricca battaglia giudiziaria l’operazione fu giudicata valida ma ebbe il merito di sollevare l’attenzione degli studiosi sul tema delle cd. competenze implicite dell’assemblea, vale a dire sui limiti entro cui gli amministratori possano legittimamente dire di «gestire» l’impresa. Ed ebbe altresì il merito di sollecitare il legislatore che nel 2003, con la riforma societaria, disciplinò proprio questa situazione: se oggi una s.r.l. volesse compiere tale tipo di operazione, non vi sarebbero dubbi sulla necessità che sia deliberata dai soci: l’art. 2479 al numero 5 infatti afferma che l’assemblea è competente per deliberare sulle operazioni che comportano una «sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo» e quanto accaduto nel caso Termoregolatori Campini ne era un chiaro esempio, dal momento che tramutare una società operativa in holding pure significa apportare una modifica sostanziale dell’oggetto sociale. Ed in questo senso vi sono già precedenti di merito: segnalo fra gli ultimi Trib. Piacenza, 14 marzo 2016. Il secondo caso è recente (Trib. Reggio Emilia, 16 giugno 2015) e riguarda «La Briciola s.r.l.», società che, al fine di [continua ..]