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Premessa - 1. Il problema della determinazione del tasso 'soglia' - 2. Il problema della comparazione con il tasso soglia - 3. La consumazione del delitto di usura - 4. L'enigma del tasso moratorio - 5. L'individuazione dell'autore dell'usura bancaria - 6. Considerazioni finali - Note
La riforma del reato di usura del 1996 fu salutata come l’opportunità di assicurare chiarezza a una fattispecie penale che soffriva di gravi difetti di indeterminatezza. Si ricorderà che nel vigore della previgente disciplina non esisteva un parametro normativo che consentisse di “quantificare” il tasso usurario, perciò conseguiva un’inaccettabile varietà di giudizio da tribunale a tribunale. Ciò perché tutto ruotava intorno a parametri legali quali “lo stato di bisogno” e “l’approfittamento” dello stesso da parte del reo, la cui valutazione molto dipendeva dalla discrezionalità del giudicante [1]. L’accertamento del tasso usurario era solitamente correlato all’eccesso della controprestazione, al lucro indebito, alla mancanza di una legittima causa e via dicendo. Nel 1996 l’illusione legislativa era quella di parametrare l’usurarietà della prestazione a un dato numerico, dunque oggettivamente rilevabile sia a priori che a posteriori. In tal modo si sarebbe garantita la certezza del diritto a vantaggio sia del creditore che del debitore. A vent’anni di distanza si può affermare che il lodevole intento rischia il naufragio. Oggi, come allora, insistono sulla fattispecie incertezze e difficoltà interpretative che disorientano gli operatori. L’esperienza delle aule di giustizia consente di cogliere queste incertezze fin dalla formulazione dei capi d’imputazione in relazione ai quali si potrebbe sintetizzare lo stato dell’arte parafrasando il famoso detto: “Tribunale che vai, usanza che trovi”. Andiamo per ordine.
L’usura bancaria è una fattispecie di reato indiscutibilmente prevista dal nostro ordinamento penale: l’aggravante dell’art. 644, comma 5, n. 1) c.p. non lascia adito a dubbi di sorta. L’usura è qualificabile come “bancaria” allorché il superamento dei tassi leciti avviene in conseguenza di un contratto stipulato nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o d’intermediazione finanziaria mobiliare. Storicamente il fenomeno dell’usura bancaria non ha conosciuto un’ampia casistica giudiziaria prima di quest’ultimo decennio, nel corso del quale invece si registrano molte pronunce di merito e di legittimità. E come spesso accade quando nelle aule giudiziarie approdano nuovi fenomeni, il compendio di decisioni giurisprudenziali è variegato. Ci vorrà tempo e quasi certamente l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (se non addirittura della Corte Costituzionale) per trovare un assetto esegetico uniforme. Il tasso d’interesse lecito dovrebbe essere stabilito, secondo l’espresso dettato dell’art. 644, comma 3, c.p.p. dalla “legge”; sostantivo che però nel caso di specie non va inteso in senso formale e perciò non indica una fonte primaria del diritto. E infatti il noto meccanismo dell’art. 2 della legge 108/1996 ha sostanzialmente rimesso all’autorità amministrativa, vale a dire a una fonte secondaria, (il Ministero del Tesoro) il rilevamento del tasso effettivo globale medio (TEGM) annuo per ogni tipologia di operazione, in relazione al quale parametrare la liceità del tasso corrispettivo. Questo sistema rende peculiare il delitto di usura e costituisce la fonte di buona parte dei problemi esegetici. Già la nota sentenza della Cass. pen., Sez. II, 23 novembre 2011, n. 46669 aveva evidenziato che la nuova struttura del reato di usura fosse in qualche modo assimilabile a quello delle “norme penali in bianco”, “(…) il cui precetto è destinato ad essere completato da un elemento esterno, che completa la fattispecie incriminatrice giacché rinvia, al fine di adeguare gli obblighi di legge alla determinazione del tasso soglia ad una fonte diversa da quella penale, con carattere di temporaneità, con la conseguenza che la punibilità della condotta non dipende dalla normativa [continua ..]
Questa interpretazione ha aperto il vaso di Pandora che ha messo alla luce tutti i difetti della normativa ideata nel 1996. Se, come dice la Cassazione, l’interprete non è vincolato dalle istruzioni della Banca d’Italia e perciò deve tener conto, nel momento della determinazione del tasso concreto, anche degli oneri che non sono considerati nel tasso soglia, come si opera il raffronto tra i due valori? Il problema si pone ciclicamente ogni volta che si contestata lo sforamento dei tassi per una nuova “voce” di spesa. Si è iniziato con la Commissione di massimo scoperto (CMS), poi con l’anatocismo e, di questi tempi, si affronta la questione con riguardo al tasso di mora e alle polizze assicurative. Se il tasso soglia è stato determinato senza tener conto di una certa variabile (la CMS, ad esempio), allora è ovvio che il confronto con il tasso applicato, che invece include il parametro, comporterà un’incongruenza con un probabile superamento dei tassi. Vero è, però, che se fosse possibile rideterminare il tasso soglia a posteriori, addizionando il parametro “dimenticato”, allora anche quello effettivo rientrerebbe nell’alveo della legalità. La critica all’esegesi giurisprudenziale è seria e mette in evidenza come il confronto tra due numeri risultanti da addendi disomogenei non sia possibile, con la consequenziale impossibilità di determinare l’usurarietà del tasso concreto. L’osservazione sembra fin troppo ovvia e in effetti vien da chiedersi perché mai certa giurisprudenza non si accontenti dell’operato del soggetto finanziatore che si sia adeguato alle istruzioni della Banca d’Italia. Mi pare che dietro a quella posizione apparentemente molto formalistica di certa magistratura si celi una preoccupazione mai espressa ma piuttosto intuibile: se il tasso usurario fosse determinabile solo ed esclusivamente conteggiando i parametri inclusi nelle istruzioni della Banca d’Italia, sarebbe facile aggirare il vincolo normativo. Con un po’ di fantasia si potrebbero “inventare” nuove voci correlate al prestito, addebitarle o comunque esigerle senza che però rilevino ai fini del delitto, proprio perché non computati nel TEGM. Si tratta di una preoccupazione che evidenza una scarsa fiducia nei confronti del sistema bancario, che non tiene conto della [continua ..]
Altro autentico ingorgo interpretativo si forma a proposito dell’individuazione del momento consumativo del reato di usura. La fattispecie è strutturata secondo il tipico schema dei delitti istantanei e si consuma con la “dazione” oppure con la “promessa” degli interessi o vantaggi usurari. Di primo acchito, dunque, sembrerebbe che l’accertamento del tasso, in tema di operazioni bancarie, debba essere riferito al momento della stipula del contratto oppure, ove lo stesso fosse mancata, nel momento dell’esazione usuraria (evenienza comune nelle ipotesi di usura non bancaria). Probabilmente l’intento della legge del 1996 era quello di costruire uno schema secondo il quale i contraenti si sarebbero dovuti attenere ai tassi soglia in vigore al momento della pattuizione. Le cose però si sono svolte in maniera molto più complessa. L’art. 644-ter c.p. stabilisce che la prescrizione del reato di usura decorre “dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. Siccome la norma è chiarissima, la giurisprudenza si è orientata nel senso che il delitto deve intendersi a “consumazione prolungata”, vale a dire già perfezionato nel momento della stipula del contratto, ma che continua a perdurare ad ogni pagamento di rata. Fin da subito si sono manifestati i problemi interpretativi. Che fare dei contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge del 1996 ma che sono continuati anche dopo? Gli “sforamenti” dei tassi successivi al 1996 ma derivanti dai contratti stipulati in precedenza, dovevano considerarsi dunque usurari? È il tema della c.d. “usura sopravvenuta”: problematica che si è estesa anche ai contratti bancari successivi al 1996 secondo uno schema analogo: i tassi pattuiti al momento della conclusione del contratto potrebbero non essere più conformi ai sopravvenuti limiti di legge. Trattasi di evenienza assolutamente frequente, soprattutto in considerazione del fatto che certi contratti bancari hanno durata pluriennale. Il dettato dell’art. 644-ter c.p. ha quindi indotto gli istituti bancari a predisporre meccanismi di adeguamento trimestrale degli interessi applicati, in sintonia con i rilevamenti della banca d’Italia. A poco è servita la norma d’interpretazione autentica contenuta [continua ..]
La questione della rilevanza del tasso di mora ai fini dell’usura mette allo scoperto tutte le problematiche connesse all’individuazione del momento consumativo dell’usura. La Banca d’Italia non annovera il tasso di mora nel TEGM. Certa giurisprudenza, come avvenuto con altre voci di spesa, ritiene invece che esso vada conteggiato ai fini della verifica sull’usurarietà del tasso corrispettivo. Siccome, come si è visto, il reato si consuma al momento della pattuizione, se il contratto prevede la mora in caso d’inadempimento, il delitto potrebbe considerarsi perfezionato in tutti i suoi elementi costituivi. Si avrebbe allora l’assurda situazione per cui, anche in assenza di inadempimenti, un contratto che non ha presentato alcuna criticità e dunque senza concreta applicazione del tasso di mora, sarebbe comunque considerarsi viziato per usura. E allora la giurisprudenza sta cercando soluzioni alternative che appaiono, a onor del vero, non sempre conciliabili con il quadro normativo di riferimento. Si afferma ad esempio che il tasso di mora rileverebbe ai fini dell’usura solo se effettivamente applicato, contraddicendo in questo modo la premessa (di cui si è detto in precedenza) che vuole il delitto consumato al momento dell’accordo, se non vi è stata l’effettiva esazione dell’interesse usurario. A questo punto ci si dovrebbe interrogare anche sulle modalità di calcolo della mora: si aggiunge o si sostituisce al tasso corrispettivo? E, ancora, incide solo per la parte d’interesse relativa all’inadempimento, oppure deve essere conteggiata sul valore complessivi dei tassi pattuiti? Infine ci si chiede se queste modalità di conteggio debbano variare a seconda dei tipi di contratti bancari. Le risposte a questi quesiti sono complesse e di pertinenza più degli esperti contabili che dei giuristi, ma quel che è certo è che non saranno mai totalmente soddisfacenti perché, quali che saranno, non troveranno un sicuro appiglio nelle norme penali.
Ulteriore profilo d’incertezza della materia si coglie allorché ci si confronta con il problema dell’individuazione dei soggetti responsabili del delitto. Le scelte delle diverse Procure del nostro Paese non potrebbero essere più disomogenee: chi imputa i direttori di filiale, ai quali si rimprovera di essersi passivamente adeguati alle istruzioni della Banca d’Italia e chi invece accusa i vertici aziendali, colpevoli della determinazione della “politica aziendale”. In altri casi poi s’imputano sia i vertici che i funzionari di filiale. Ognuna di queste scelte è criticabile e presenta profili discutibili. Intanto va ricordato che oggigiorno, salvo qualche limitata eccezione, l’erogazione di un finanziamento è un’operazione procedimentalizzata, quasi mai di pertinenza esclusiva di un singolo soggetto, ma che coinvolge più persone ed è supportata da sistemi di gestione informatizzati che indirizzano le scelte. In questo contesto l’attribuzione di responsabilità penali in capo a chi ha sottoscritto il contratto è quanto mai complessa, tanto più sul piano della prova del dolo. Il direttore di filiale non ha, di solito, alcun vero ruolo sulla determinazione del tasso corrispettivo, il cui valore è sovente generato da un software predisposto a livello centralizzato. Ma soprattutto mi pare inesigibile la pretesa, implicita nella contestazione penale, del costante presidio, da parte del direttore di una filiale di banca, sui tassi applicati ogni trimestre su ogni singolo conto corrente. Nella maggior parte dei casi giudiziari, infatti, l’usura si rapporta al superamento dei tassi soglia non tanto nella fase genetica, vale a dire in quella della pattuizione, quanto piuttosto in quella dinamica, sicché la contestazione penale ai direttori di filiale presuppone il principio che su di loro incomba il dovere di verificare, ogni trimestre, i tassi applicati su ogni singolo rapporto contrattuale della filiale. Ancor meno realistico, poi, mi pare la pretesa delle Procure per le quali i direttori di filiale dovrebbero sindacare sulle istruzioni della Banca d’Italia e discostarsi da esse, facendo includere nei tassi corrispettivi voci che il decreto ministeriale di riferimento ha invece escluso. Ma anche l’imputazione dei vertici aziendali desta perplessità di non poco conto. Giammai essi sono [continua ..]
Quanto finora esposto costituisce un esempio, certamente non esaustivo, delle difficoltà esegetiche sottese alla fattispecie penale dell’usura. La soluzione, per così dire intermedia, adottata dalla giurisprudenza fino ad oggi, cioè quella di ritenere la sussistenza oggettiva del delitto ma di assolvere gli imputati per carenza dell’elemento soggettivo, è per sua stessa natura destinata a cessare a breve termine. Quando, poi, si comincerà ad esaminare la delicatissima tematica dell’usura soggettiva applicata anche alle ipotesi bancarie, allora l’incertezza applicativa sarà destinata ad amplificarsi oltremodo. Ad oggi l’ordinamento giuridico non garantisce certezza a chi opera nel settore bancario, in primis ai singoli funzionari di filiale, con il rischio di condanne per un reato infamante e molto grave, ma nemmeno ai consumatori che, dovendosi muovere in un ambito giuridico incerto, sono talvolta indotti a iniziative giudiziarie rischiose, inutili e costose che finiscono con l’aggravare la loro situazione patrimoniale. La certezza del diritto, insomma, è un bene prezioso per tutte le parti ed è quanto mai necessario che il legislatore intervenga per fare chiarezza.